Daimon Mediterraneo
C’era una volta la questione meridionale. Che adesso non c’è più. Dissolta più che risolta. Lasciata cadere piuttosto che abbandonata.
Le ragioni? Tante.
Una classe dirigente meridionale che pensa più al proprio destino che a quello della nazione. Una classe dirigente nazionale che non ci crede, non ci pensa e se ci pensa pensa che oggi è il Nord la vera questione da affrontare.
Sta di fatto che la storica questione, che per oltre un secolo e mezzo ha appassionato intellettuali, politici, cittadini, operai, contadini, militanti e non, del Sud e del Nord, giace dimenticata. Senza più avere una dimensione politica. Senza mai aver avuto una dimensione globale.
Ci sono molti modi per raccontare il Mezzogiorno oggi.
Si può essere tentati dall’utopia e inseguire una qualche versione meridionalista del celeberrimo “I have a dream”. Cedere al fascino del viaggio simulato nel “Sud che ci piacerebbe indipendentemente da quello che c’è”. O più semplicemente chiedersi da quali punti di vista e a quali condizioni lo sviluppo della società dell’informazione può rappresentare per il Sud l’occasione per ridurre disuguaglianze e ritardi, per determinare e cogliere opportunità, per favorire la diffusione di modelli, sistemi, produzioni e processi innovativi di sviluppo.
Quattro indicazioni utili per le iniziative meridionaliste prossime venture.
La prima ci ricorda che la storia della solidarietà è bella, travagliata e controversa.
Bella della bellezza propria dei valori importanti. Quelli che infiammano i cuori e segnano le vite. Che permettono di condividere idee, passioni, fatti, significati. Di riconoscere nell’altro uno di noi. Di scoprire e sentire di non essere soli.
Travagliata perché richiede comportamenti coerenti. Responsabili. Consapevoli. Dunque niente affatto scontati.
Controversa perché in quanto tale riesce assai di rado a incidere sui processi reali che attraversano la società. In particolare quando resta confinata nello spazio dei valori, quando non riesce a stabilire connessioni con la rappresentanza e gli interessi.
La seconda ci dice che prendere atto del fatto che la solidarietà da sola non basta, vedere il confine esistente tra ciò che è proprio del dominio della solidarietà e ciò che invece non lo è, tra ciò che essa può fare e ciò che invece no, rappresenta probabilmente la maniera migliore, di certo la più utile, per riconoscere la sua importanza e il suo valore, così come quello delle pratiche individuali e sociali a essa connesse.
La terza ribadisce che per vincere una battaglia non basta che sia giusta. Bisogna che sia sentita propria da chi è impegnato a combatterla.
Qualunque battaglia per essere sentita propria deve tenere insieme la testa e il cuore, gli interessi e i valori.
La quarta ci riporta alla necessità che il Sud sappia contare innanzitutto sulle proprie forze. Sia capace di pensare, in primo luogo dal Sud, il futuro del Sud. E ciò ci riporta a sua volta al ruolo e alla funzione della società civile meridionale, al rapporto e alle differenze tra leader e classe dirigente, al protagonismo dei cittadini meridionali.
A Sud un certo punto si è pensato che il Sud fosse cambiato. Stesse cambiando. In un modo che – anche se non eliminava distanze, squilibri, dualismi, ritardi, e soprattutto non riusciva ad assumere carattere e valore generale, a fare cultura, a determinare svolte – rimaneva comunque per molti aspetti significativo.
La verità è invece che il Sud, nel quale non mancano esperienze e realtà positive, nel suo complesso non riesce a innovare comportamenti, strategie e politiche. E dunque continua a essere artefice, prigioniero e vittima della consistenza e della profondità dei propri problemi “storici”, a rimanere lontano dai livelli di sviluppo e di qualità della vita centrosettentrionali, a non valorizzare adeguatamente il proprio capitale umano e sociale.
Ma se ciò che non funziona è proprio il quadro, l’insieme, il contesto, che fare?
Nella nostra personale agenda, alla voce “cose da fare al più presto”, abbiamo trovato:
1. Favorire a ogni livello (a partire naturalmente dalla scuola), percorsi di educazione alla legalità e al rispetto delle regole.
2. Investire in socialità e formazione.
3. Promuovere lo sviluppo di reti sociali e tecnologiche.
4. Attivare nuovi strumenti di sostegno finanziario con l’obiettivo di favorire e accompagnare lo sviluppo di imprese innovative.
5. Sostenere gli sforzi di coloro, in primo luogo i giovani, che cercano di costruirsi un futuro mettendo su un’attività autonoma o una piccola impresa.
Puntando decisamente sull’intreccio tra innovazione tecnologica, creatività e contenuti.
Attivando percorsi di formazione mirati all’acquisizione di competenze organizzative e di gestione.
Favorendo ipotesi di collaborazione tra imprese, scuole, università, società di promozione e di sviluppo.
Individuando concrete ipotesi di lavoro, veri e propri piani di impresa, che guardino in primo luogo ai temi dello sviluppo sostenibile, dell’accesso alla società dell’informazione, dell’incremento di nuove professionalità, del lavoro a distanza.
6. Valorizzare le vocazioni e le identità meridionali. Evitare di dissipare patrimoni fatti di tradizione, cultura, storia, capacità di fare.
7. Attivare localmente una domanda in grado di sostenere la diffusione delle nuove tecnologie e dei nuovi media.
8. Monitorare le attività locali, raccogliere e diffondere le esperienze più significative, valorizzarne i risultati.
Nel Mezzogiorno non si è mai compiutamente affermata una classe dirigente intermedia in grado di definire e perseguire, dal Sud, percorsi credibili di emancipazione e sviluppo culturale, sociale e politico per il Sud.
Nessuna società cresce e si sviluppa se a “fare” sono solo i “capi”. E se tra i pochi che “fanno” ciascuno continua a fare per conto suo.
Il tema è di quelli ineludibili. Tra i tanti nodi da sciogliere c’è quello che riguarda la connessione tra società e istituzioni, la valorizzazione dei corpi sociali intermedi, delle autonomie funzionali e sociali, dei poteri decentrati, della società civile, che è particolarmente importante.
è su questo terreno che può infatti formarsi una classe dirigente che sappia contribuire alla promozione e allo sviluppo delle risorse culturali, sociali e produttive locali; che sappia cercare innanzitutto in se stessa le energie per risolvere i propri problemi.
Senza semplificazioni. Senza rimanere vittima della suggestione dell’uomo forte. Cercando, con pazienza e lavoro, di rafforzare la struttura democratica della società, di incentivare l’autonomia e la responsabilità, di favorire l’adozione di strategie innovative, di affermare un’idea di mercato fatto di regole, norme che garantiscano la concorrenza, che impediscano lo sfruttamento di posizioni dominanti, che favoriscano la qualità dei prodotti e dei sistemi produttivi.
è su questo terreno più che su ogni altro occorre a nostro avviso sparigliare le carte. Rompere un meccanismo troppo improntato sull’uomo solo al comando. Costruire i ponti e le reti in grado di connettere idee e persone, scelte istituzionali e strategie imprenditoriali, modi di vita e tempi di lavoro. Per fare quel salto di qualità che a partire dalle persone porta a cambiare le regole e il sentire collettivo. Per diffondere, accanto a una nuova cultura dei diritti, un’etica dei doveri e delle responsabilità dei cittadini ancora troppo debole. Per promuovere un nuovo protagonismo della società meridionale.
Formare una classe dirigente significa in fondo anche questo: far crescere a ogni livello la capacità di individuare problemi e trovare soluzioni, la voglia di agire in maniera autonoma e di non rinunciare ad assumersi responsabilità. Pensando con la propria testa. Agendo con le proprie mani.
L’idea che il secolo scorso possa essere simboleggiato dalla scoperta dell’atomo e quello attuale dalla rete, per quanto non susciti in questa fase la stessa euforia da “terra promessa” che a un certo punto ha caratterizzato la diffusione di Internet e lo sviluppo dell’economia digitale, sintetizza in maniera efficace la profondità, la complessità, la novità dei cambiamenti in corso e rappresenta dunque un primo significativo fattore di discontinuità con la fase precedente.
Prendiamo la figura dell’imprenditore. Nel passato più e meno recente il capitano di ventura, il capitalista weberiano, l’imprenditore schumpeteriano, è sostanzialmente un eroe solitario, un self-made man; oggi l’imprenditore ideale è quello che sa pensarsi come un nodo intelligente (molto meglio naturalmente se con tanti soldi a disposizione) di una catena ampia di valore, di un sistema largo di affari e relazioni. E lo stesso processo per molti aspetti condiziona lo sviluppo della società e della politica.
I soldi contano un po’ di meno, le idee e la capacità di collegarsi, di connettersi con le persone, i sistemi e i contesti istituzionali, dal livello locale a quello nazionale e internazionale, contano un pò di più.
Un secondo rilevante fattore di discontinuità può essere individuato nel fatto che l’incertezza non solo cresce, ma per molti versi si istituzionalizza e diventa inquietudine.
L’attentato alle Twin Towers c’è l’ha come sbattuto in faccia, ma in realtà abbiamo cominciato a metabolizzare dosi massicce di incertezza con i tempi dell’innovazione tecnologica, che si accorciano sempre più, con le società “avanzate” che quei cambiamenti tendono sempre più a prendere a modello, con la trasformazione e in qualche caso la dissoluzione delle strutture intermedie, con le difficoltà e la crisi degli Stati nazione e delle Costituzioni nazionali e il contemporaneo ampliamento dei poteri assai meno “comprensibili” delle grandi corporazioni e delle lobbies economiche e finanziarie internazionali.
Il gioco cambia oramai ripetutamente, e con esso le regole, i ruoli e i poteri dei diversi giocatori in campo. Cosicché siamo costretti continuamente a fare i conti con la marcata tendenza alla concentrazione dei poteri in poche mani e la contemporanea necessità di ridefinire gli spazi di effettiva incidenza democratica.
Il terzo elemento di discontinuità si riferisce a un ambito più propriamente economico e ci dice che al tempo dei bit le differenze tra i diversi settori produttivi sono meno importanti, in quanto essi rappresentano l’insieme delle risorse di cui un dato Paese o regione possono disporre.
Nel nuovo contesto, la questione dunque non è più se sviluppare l’industria o i servizi, il turismo o il terziario avanzato, ma come fare in modo che le città interagiscano con i distretti tecnologici, con lo scopo di costruire, in primo luogo attraverso la riorganizzazione e la valorizzazione del sistema scolastico e formativo, l’insieme di cultura, servizi, infrastrutture che determinano la qualità ambientale, indispensabile per vivere meglio e invogliare gli investitori a scegliere un determinato territorio piuttosto che un altro.
Allo stesso tempo, si tratta di capire come rivolgere energie e attenzione alla possibilità di creare lavoro nei segmenti di mercato sociale volti alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura delle persone, dato che i servizi alla persona saranno decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione o di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini.
Il quarto fattore di discontinuità riguarda l’organizzazione e la struttura dei sistemi produttivi.
L’economia digitale non elimina certo le differenze tra grandi, medie e piccole aziende, né le gerarchie che a esse sono connesse. Eppure, ancora una volta, non si può negare che da un lato è più vasto il sostegno a processi di formazione di imprenditorialità diffusa e dall’altro crescono le possibilità di integrazione e di accesso a risorse critiche di competenza di tipo tecnologico, organizzativo e di comunicazione.
Occorre perciò dire con molta nettezza che se la questione, come pensiamo, riguarda le opportunità, oggi esse sono assai più numerose e significative che nel passato più e meno recente.
Per le ragioni che abbiamo più volte evidenziato. Perché nei cambiamenti di fase le gerarchie precedenti sono obiettivamente meno forti, i lacci un po’ meno stretti, le frontiere un po’ più a portata di mano. Perché in Italia e in Europa le iniziative che, puntando su ricerca e innovazione, sono volte a creare le basi per una maggiore competitività dei sistemi territoriali, che nella nuova fase hanno un’importanza strategica più marcata di quelli aziendali, sono davvero numerose e passano in primo luogo per la capacità di dotarsi di reti di informazione e di comunicazione efficienti. Perché le persone, il patrimonio di conoscenze e di competenze che ciascuna di esse rappresenta, contano sempre di più.
Il fattore umano si impone sempre più come l’elemento principale di differenziazione competitiva. Al di là dell’attuale ciclo negativo di mercato e del conseguente rallentamento – o addirittura inversione – della tendenza di crescita occupazionale, la capacità di reperire, motivare e trattenere personale altamente qualificato può veramente fare la differenza. […] Per anni abbiamo potuto attingere a questa risorsa vitale che non avrebbe altrimenti potuto trovare sbocchi adeguati, trasformando così una tragedia nazionale, quella della disoccupazione intellettuale, in una grande opportunità. […] Ma non è tutto: il livello di condivisione degli obiettivi dell’azienda e la stabilità del personale nel posto di lavoro sono estremamente migliori rispetto ai livelli classici dell’industria statunitense. Viene così evitata la dispersione di conoscenze ed esperienze acquisite, preservando un prezioso patrimonio di know-how aziendale che in altri ambienti verrebbe periodicamente vanificato.
Proviamo per un attimo a immaginare che abbia ragione John Keats. E che per capire a cosa serve il mondo bisogna pensare al mondo come alla “valle del fare anima”.
E proviamo poi a seguire James Hillman. Nella sua idea che recuperando l’anima al mondo si possa ricreare una psicologia politeistica, pagana, polimorfa, meridionale, antindividualistica, mediterranea, che ci riporta alle distinzioni, al mito.
Ad Ares, che irrompe nelle nostre case ogni volta che accendiamo la televisione. Ad Afrodite, che ci parla attraverso la pubblicità e i grandi magazzini. A Ermes, che vive nella comunicazione o nel mercato azionario. A Era, la forza, i legami, i vincoli della famiglia. A Pan, che “riporta la psiche alla sua radice insita nell’istinto naturale, semi-animale, procurando un radicale mutamento di coscienza, un allontanamento totale da dove si era prima”.
Proviamo adesso a chiederci come mai, in questo fantasmagorico mondo chiamato economia digitale, uomini del Sud, stiano lasciando il segno, siano tra i principali protagonisti del sogno digitale non solo italiano, stiano segnando il corso della storia ancora giovane e tuttora tribolante dell’economia dei bit, in modi e forme del tutto inedite.
Nel passato più e meno recente non sono naturalmente mancati donne e uomini meridionali che abbiano saputo conquistare con le proprie idee e le aziende spazi significativi sui mercati mondiali. Ma ciò è avvenuto sempre all’interno di segmenti specifici di mercato. Spesso importanti. A volte prestigiosi (valga per tutti l’esempio della moda). Ma in ogni caso di nicchia.
Ora per la prima volta uomini, idee e imprese del Sud conquistano un ruolo da protagonista non solo sul terreno economico ma anche su quello politico e sociale.
Per una volta insomma l’impresa meridionale fa cultura. Assume un valore di carattere generale, con successi che meritano di essere analizzati ed emulati.
Quelle che, nel momento in cui molte cose si stanno sciogliendo nell’aria, la gran parte delle reti organizzative si regge sulla forza dei legami deboli, e le capacità e le idee delle persone contano di più che nel passato, rendono meno improbabile l’affermazione delle capacità creative, visionarie, degli uomini del Sud, forse maggiormente predisposti a “un radicale mutamento di coscienza, un allontanamento totale da dove si era prima” e dunque più pronti a fare il salto dentro la rivoluzione digitale.
Pan e futuro, dunque.
Potrebbe essere uno slogan per la riscossa. La chiave per cogliere fino in fondo alcune opportunità. Per mettere a valore culture, storie, voglia di fare. Per definire contesti più ricchi dal punto di vista culturale e sociale prima ancora che economico e produttivo. Per non rinunciare ai diritti. Né a un’idea di società giorno dopo giorno un po’ meno ingiusta. Per ripensare le tante storie del Sud dentro una cultura e una storia mitica. Creativa. Flessibile. Capace di dare identità e di cogliere le differenze. Capace di coniugare l’innovazione, le tecnologie, con la memoria. E magari di dare concretezza a una “vecchia” idea di Abramovitz, la teoria del “catching up”21, che in buona sostanza afferma che quando in un Paese (o in una regione) meno sviluppato vengono immesse nuove tecnologie, si ha una crescita media della produttività del lavoro superiore a quella dei Paesi (o delle regioni) leader e di conseguenza si avvia un processo di riduzione degli squilibri, fino alla loro progressiva scomparsa.
Cosa occorre ancora?
La consapevolezza che non vi sono diritti ai quali non corrispondano doveri. E che assolvere i propri doveri è la strada più efficace per garantire meglio i diritti propri e le libertà di ciascuno.
è una consapevolezza che non si vende. Si conquista. Facendo ancora una volta ciascuno i conti con il proprio dáimon. Pensandosi a livello sociale come parte di una rete dinamica di eventi interconnessi in cui nessuno è fondamentale e ciascuno dipende dalla qualità e dalla coerenza delle relazioni con gli altri. L’insieme delle connessioni determina la qualità della struttura dell’intera rete, la sua capacità di assicurare al più ampio numero di persone il più ampio paniere di diritti concretamente esigibili.
È intorno a questi temi che si può provare a vincere la sfida meridionale pour excellence: costruire una classe dirigente meridionale, fare il salto di qualità che a partire dalle persone porta a valorizzare il capitale umano e sociale, a rispettare la cosa pubblica e le regole, a rendere possibili ipotesi e percorsi di sviluppo.
L’idea è che si possa partire da qui per vivere un finale di partita diverso. Per far emergere le storie di successo. Raccontarle. Diffonderle. Moltiplicarle.
Mostrando efficienza. Onestà. Voglia di fare.
Per una questione che non c’è più sono dunque ancora tante le questioni non risolte. Cosicché una parte del nostro Paese continua ad avere livelli di civiltà, vivibilità, sviluppo significativamente più bassi di quelli del Centro-nord.