Le vie del lavoro
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C’era una volta
C’era una volta l’Italia in cui il lavoro, non solo quello nelle scuole, negli uffici pubblici o negli ospedali, anche quello nei cantieri, nelle fabbriche e nelle botteghe artigiane, durava tutta una vita, cominciavi a lavorare in un posto e ci rimanevi fino a quando non andavi in pensione. Certo, anche allora non mancavano le eccezioni, ma la regola era quella, come del resto in tante altre parti del mondo, e quella regola determinava una connessione forte tra il lavoro e l’identità, delle persone e delle loro famiglie. Ricordo che a Secondigliano, quartiere tra i più complicati di Napoli, ci si riconosceva dal nome di battesimo e dal lavoro del capofamiglia ancora più che dal cognome. Per esempio Tonino era per tutti il figlio di Raffaele, quello che lavorava all’Italsider, Salvatore era il figlio di Gennaro, quello che faceva l’operaio alla Mecfond, Umberto era il figlio di Antonio, l’artigiano. E Raffaele, Gennaro, Antonio condividevano tra loro e con tutti gli altri come loro la fierezza di poter mandare i figli a scuola, l’ansia di conquistare per sé e la propria famiglia un futuro migliore, il rispetto che si deve a chi questo futuro se lo costruisce ogni giorno con lavoro e sacrificio.
Ipse dixit
In quella Italia il lavoro non finiva con la giornata di lavoro, continuava la sera a tavola quando venivi interrogato su quello che era successo a scuola e aggiornato su quello che era successo in fabbrica, era persino il lasciapassare per invitare a casa un nuovo amico o una nuova ragazza. Frequenta le persone migliori di te e rimettici le spese (in napoletano è assai più bello ma altrettanto meno comprensibile) era uno dei modi di dire più gettonati e la domanda “cosa fa suo padre?” prevedeva una risposta vera e una valutazione meditata. Non era necessario che facesse l’avvocato o il medico, anche perché dalle nostre parti non è che ne girassero molti, bastava dire l’operaio, il muratore, il salumiere, il ragioniere, l’importante è che si guadagnassero da vivere con il lavoro, che anche a quei tempi a Secondigliano non è che fosse del tutto automatico. Lo vogliamo dire?, e diciamolo!, il lavoro era così presente nelle vite di noi ragazzi che in certi momenti diventava insopportabile. A casa Moretti galeotto era l’Enel di via Galileo Ferraris e chi ci lavorava come operaio, nostro padre. Sì, perché lui con la sua licenza di quinta elementare niente sapeva di Marco Tullio Cicerone, Pitagora, Aristotele e Averroè, eppure aveva il suo ipse dixit fatto in casa, cioè al lavoro, nel senso che avevi voglia di discutere se una cosa era vera o falsa, giusta o sbagliata, quando profferiva la formula magica, “l’hanno detto all’Enel”, si metteva il punto. Così. Di colpo. Niente più da discutere e tanto meno da interpretare. Era così e basta. Perché lo diceva lui. Perché l’avevano detto all’Enel.
Un mondo in incessante trasformazione
Rimpiangere l’Italia che non c’è più è come lavare i pavimenti mentre la casa brucia, non ha molto senso, come amava ricordare ai suoi impavidi compatrioti Winston Churchill. Siamo parte di un mondo in incessante trasformazione, sempre più persone si spostano sempre più velocemente da una parte all’altra, le tecnologie cambiano con una rapidità senza precedenti e con esse i nostri modi di essere e di fare. Cambia la partizione tra ciò che per noi è certo e ciò che invece non lo è, cambia il paesaggio sociale al quale con fatica ci eravamo abituati e così finiamo col sentirci un po’ come Turner, che a chi gli chiedeva come facesse a dipingere paesaggi così intensi, mari tanto tempestosi, rispondeva “l’arte accade”, perché sì, in fondo anche il cambiamento accade, e un po’ tanto come Proust, contagiati dalla sua stessa sindrome, disorientati, estraniati, messi costantemente alla prova dall’ombra del futuro che si schiaccia sul presente, perché sì, diventa sempre più faticoso orientarsi tra le stanze delle nostre vite quotidiane, soprattutto quando si è giovani.
Vite vulnerabili
Vincenzo, 28 anni, laurea in scienze della comunicazione a Salerno, lavoro a Milano, la voglia di essere curioso che per fortuna non lo abbandona mai, ha raccontato la sua generazione con queste parole: “[…] ci sentiamo fuori dal mondo, stranieri a casa nostra, incapaci di affrontare la vita da soli, spauriti e storditi. Siamo vulnerabili”. Chissà, forse “giovani alle prese con una vita vulnerabile” potrebbe essere un buon titolo per il prossimo film di Almodóvar. Ma nella vita reale?
Man, I am a worker
Vite vulnerabili. Ccome quella di Luciano, 29 anni, un lavoro stabile, che gli piace, a tempo pieno, due turni su 7 giorni, due domeniche al mese di riposo, due di lavoro. Guadagna 950 quando va bene 1000 euro al mese, vive a casa della mamma, a metterne su una propria non ci pensa nemmeno. Tu gli chiedi perché? Lui ti risponde con un sorriso che se lo conosci bene ci leggi “di questi tempi vorrebbe dire lavorare per pagare l’affitto e le bollette, ti sembra una scelta intelligente?”.
Vite come quella di Amelia, che di anni invece ne ha 38, ma lei per fortuna è femmina e le femmine si sa hanno tanta grinta in più. Perché sì, quando il suo lavoro è diventato stabile, 10 anni fa, lei ha scelto l’indipendenza, ha messo su casa e famiglia, ha resistito 6 anni prima di tornare da mamma e papà. Le chiedi come mai?, te lo spiega così: “mi ero stancata di lavorare per pagare l’affitto e le bollette, di non avere i soldi neanche per fare una vacanza decente, me ne sono tornata dai miei, almeno metto qualcosa da parte, prima o poi spero di poter pagare l’anticipo e di poter fare un mutuo per comprarmi una casa”. Da due anni Amelia è mamma di una splendida bambina, cresce felice con la mamma e i nonni, il papà invece lavora a Londra da quando qui in Italia il lavoro che aveva perso non l’ha trovato più.
Vite come quella di Antonia, che agli inizi di agosto mi ha scritto su Skype “professò, non ce la faccio più a superare colloqui per vedermi offrire, dopo una laurea magistrale e due master, lavoretti da 400-500 euro al mese, parto presto per l’Inghilterra o per l’Olanda, provo a far girare la ruota, così davvero non ha senso, sto facendo una vita che non mi merito”. O come quella di Domenico, che qui “dove il dolce sì suona” era disoccupato che più disoccupato non si può e a Madrid fa per Greenpeace quello per cui si è laureato, si occupa di comunicazione. O di Maria Stella, che adesso vive a Milano dalla sorella e lavora per poche centinaia di euro al mese, e li chiamano stage, per un importante quotidiano nazionale. O di Alvirea, che in Italia ha conseguito la laurea triennale e in Francia ha scoperto che valeva ma non troppo, ha dovuto superare di nuovo gli esami del terzo anno, questo settembre ha dato quelli del quarto, un altro anno ancora e comincerà anche lei a percorrere le vie del lavoro. Si spera.
La banalità dell’incertezza
Ebbene sì, funziona in larga parte così, è la condizione umana e sociale di default di chi lavora, peraltro non solo alla voce giovani perché poi anche fare i turni alla Fiat e inciampare a 50 anni nella parola “esubero”, scoprire di essere “obsoleto”, fare i conti col fatto che c’è sempre uno più giovane e più bravo di te che costa pure meno, non è che sia proprio il massimo. Sì, siamo uomini flessibili (Richard Sennett), viviamo in società liquide (Zygmunt Bauman), siamo esposti al dominio dell’incertezza (Salvatore Veca). E se ce ne stessimo convincendo a tal punto da non lo considerarlo più soltanto normale, da averlo fatto diventare scontato, di più, banale? E se invece non fosse così? Davvero siamo condannati ad adottare questa versione del software modernità? Non c’è niente di diverso che si possa fare? Non guardate me per le risposte che naturalmente non ce l’ho. Due idee due invece sì, ma prima di condividerle con voi bisogna che facciamo un salto dal mago dei numeri, che altrimenti dice che lo sottovaluto troppo e si arrabbia con me.
Il mago dei numeri
Cerchiamo di dirlo con chiarezza senza mancare loro di rispetto, che al tempo del data journalism sarebbe stupido anziché no, non è che i numeri da queste parti non siano importanti, è che la nostra inchiesta segue un approccio di tipo qualitativo, la nostra è un’attività di osservazione
partecipante, privilegia la narrazione, è orientata a stabilire un’interazione diretta, ad entrare in empatia con le persone che si incrociano. Perché sì, noi andiamo in cerca di persone, delle loro storie di vita e di lavoro, persone e storie rappresentative certamente della più ampia pluralità di mestieri, di città, di età, di tradizioni ma che comunque non hanno né i numeri né le caratteristiche per avere valore statistico. Fermo restando insomma che i numeri li rispettiamo molto, che la nostra è solo una parte dell’attività di inchiesta che ci auguriamo possa coinvolgere tanti cittadini reporter, diversi punti di vista e approcci, che non è detto che nel corso del cammino non si trovi il modo di arricchire il lavoro ad esempio con un’indagine quantitativa sulla soddisfazione del lavoro degli italiani, resta il fatto che i protagonisti principali di questa inchiesta restano le persone, le donne e gli uomini che con le loro storie, il loro approccio al lavoro, ci porteranno a dare forma al trascorrere del tempo, a indicare cause, a pensare a conseguenze possibili, a prenderci cura di noi stessi.
Detto ciò che andava detto con lingua dritta, come sarebbe piaciuto a Sitting Bull o a Sa Go Ye Wha Ta, qualche numero proviamo a darlo anche qui.
L’Istituto Nazionale di Statistica ha recentemente messo in evidenza come al 2010 il 10,3% degli occupati in Italia lavori in modo non regolare, cioè senza il rispetto della normativa vigente in materia fiscale-contributiva. Si tratta di 2.548.000 lavoratori (2.101.200 dipendenti, l’11,1% del totale, e 446mila indipendenti, il 7,7% del totale). Se vogliamo proprio esagerare possiamo aggiungere che nel 2010 erano occupate, sempre secondo l’ISTAT, tra regolari e irregolari, 24.643.000 persone (-196mila unità rispetto all’anno prima), che il lavoro precario rappresenta circa l’80% delle assunzioni fatte nell’anno, che ci sono in Italia oltre due milioni di disoccupati e 500 mila lavoratori in cassa integrazione, che sta aumentando in maniera significativa il ricorso al part time involontario. Vite vulnerabili, ma questo l’abbiamo già detto.
Lavoro, dunque valgo
Come ho raccontato in Bella Napoli, il lavoro è entrato per la prima volta nella mia vita grazie a mio padre, con la sua “lectio magistralis” intorno alla differenza tra “’a fatica pigliata ‘e faccia” e “’a fatica fatta ‘a meglio ‘a meglio”. Il contesto, tanto per cambiare, era l’Enel di via Galileo Ferraris, i termini del conflitto con il suo collega possono essere invece riassunti così: bisogna fare bene e al più presto il proprio lavoro a prescindere dalla sua gravosità, dall’impegno richiesto, o conviene traccheggiare sperando che il lavoro “sporco” tocchi a qualcun altro?
Crescendo, ho avuto modo di farmi una mia idea in proposito, poi mi sono adoperato per evitare che l’idea restasse soltanto un’astrazione, poi ho capito quanto sia importante il legame tra lavoro e realizzazione di sé da una parte, senso della nazione e sua missione dall’altra, cosicché quando arrivo per la seconda volta a Tokyo, nel 2007, per la mia attività di ricerca sull’organizzazione della scienza al Riken e Angelo Volpi, al tempo responsabile Scienze e Tecnologie dell’Ambasciata d’Italia a Tokyo, mi dice che in Giappone “non c’è lavoro di cui ci si debba vergognare, lavorare con impegno vuol dire condividere una missione, quella stessa che fa grande la nazione”, non mi sorprendo. Non mi sorprendo quando la domenica dopo scendo per una passeggiata e trovo nel cortile una trentina di volontari di ogni età pronti a pulire prati e stradine del Riken e neanche il giorno precedente, a Odaiba, quando salendo le scale che conducono al palazzo della Fuji Tv, sono come rapito dalla cura con cui l’uomo in divisa lucida i corrimano. Sì, credo di sapere di cosa si tratta, per questo non mi sono sorpreso neanche quest’anno, commosso sì, quando ho letto di Kyoko che, dopo aver aperto il suo negozio di prodotti italiani nel centro di Tokyo, 24 ore dopo lo tsunami che ha sconvolto il Giappone, ha detto “sono sfinita, ma sento la profonda soddisfazione di aver fatto tutto quello che era necessario per me, per la mia famiglia, per il mio lavoro, per il mio Paese. Se ognuno di noi farà la sua piccola parte, riemergeremo anche questa volta”.
È lo scopo che ci connette
Come ho accennato all’inizio lo scopo di questa inchiesta, ciò che ci connette, ci guida, ci definisce, ci motiva, è cercare nel lavoro il valore, il valore delle persone, il valore dell’Italia. Sì, sulle vie del lavoro cercheremo, racconteremo, l’Italia che lavora con rigore e passione, con la testa e con le mani, e attraverso il racconto cercheremo di far emergere senso, identità, missione delle persone e della nazione. Invece di Kate Moss che alla fine dello spot pubblicitario per uno dei brand più famosi al mondo pronuncia la fatidica frase “perché io valgo” troverete il barista e la scienziata, l’artigiano e l’impiegata, il musicista e l’operaia, il ferroviere e la manager che con il loro lavoro, con l’intelligenza, l’amore e l’impegno che mettono nelle cose che fanno, possono determinare le condizioni per il ribaltamento culturale di cui il Paese ha bisogno.
Racconteremo l’Italia che pensa che il lavoro non sia solo un modo per procurarsi i beni necessari per vivere ma anche un valore, un bisogno in sé, uno strumento importante per organizzare la propria vita in un sistema di relazioni riconosciute, per soddisfare le proprie aspettative di futuro, per cercare di vivere, in una pluralità di contesti e circostanze, vite più degne di essere vissute. L’Italia degli italiani normali, quelli che pensano “lavoro, dunque valgo”, merito rispetto, considerazione, quelli che lavorano e vivono a partire da questo pensiero persino quando non lo sanno, quelli che con il loro sapere e il loro fare spostano l’ago della bussola dal riconoscimento sociale della ricchezza al riconoscimento sociale del lavoro, dal valore dei soldi al valore del sapere e del saper fare. Quest’Italia non solo esiste, c’è, è fatta di tanta gente, ma rappresenta la chiave, la condizione di possibilità del cambiamento, è il motore che può muovere il Paese, farlo ripartire, sostenerlo nel processo di crescita di cui ha bisogno.
Il calore che fai quando fai qualcosa
Cercheremo l’approccio dell’artigiano, quello che ti fa provare soddisfazione nel fare bene una cosa “a prescindere”, senza cercare alibi nelle mille cose intorno che non funzionano come dovrebbero, qualunque cosa essa sia: pulire una strada, progettare un centro direzionale, scrivere l’enciclopedia del dna, cucinare la pasta e ceci. Sì, siamo cittadini reporter in cerca di una cultura, di una vocazione, di quella “cosa che fai con gioia, come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo”, come diceva Josephine Baker, in cerca del “calore che riesci a fare quando fai qualcosa”, come dice il giovane Renato quando racconta della sua attività di maestro di chitarra. Ecco, noi cerchiamo questo, e ci piace un sacco l’idea di cercarlo insieme a voi. Buona partecipazione.