A #Cip con Riccardo
Domenica 24 Agosto 2014
L’appuntamento co Riccardo è alle 7:40, il treno parte alle 8:50 ma bisogna essere in stazione per tempo, ad arrivare “in pizzo in pizzo”, all’ultimo momento, si rischia di restare in piedi e sarebbe un pessimo modo di iniziare la nostra vacanza.
Alle 7:42 sono fuori la porta di casa sua, alle 7:45 provo a chiamarlo ma il suo telefono è off, alle 7:48 comincio a bussare sfidando l’ira di Luca, il fratello maggiore, che oggi non lavora e se lo sveglio non la prenderà bene, alle 7:50 Riccardo mi apre, in pigiama.
Faccia stralunata, sguardo perplesso, farfuglia “che ci fai qui a quest’ora” e si sveglia del tutto con “mannaggia, ho sbagliato a mettere la sveglia”.
Io: okkei, niente arrabbiature, è la nostra vacanza, partiamo con l’Intercity delle 9:50.
Lui: Pà, ce la faccio, la valigia l’ho fatta ieri sera, dammi tre minuti e sono pronto.
Alle 7:54 scendiamo. Taxi, stazione, biglietti, treno, seduti. Missione compiuta.
In attesa che il treno parta decidiamo che per tutta la nostra piccola grande vacanza non cederemo alla selfiemania. Come sempre con educazione e senza spocchia, l’hastag è #noselfie, nel senso che ogni volta che ci vorremo fare una foto, chiederemo a qualcuna/o per piacere di farcela, e in cambio, se ha tempo e se vuole, ci potrà raccontare un pezzetto di sé.
La prima è facile e fortunata, perché il treno ci mette tre ore e la ragazza seduta vicino a noi, nonostante i suoi quindici anni, ha un sacco di cose da raccontare.
Mi chiamo Alessandra I, ho qundici anni, vivo a Portici, mia madre fa la segretaria alla Federazione Italiana Medici Pediatrici e mio padre è informatico e lavora all’Alenia.
Studio ragioneria, amministrazione e finanza, ho fatto questa scelta sia perché mi piacciono il diritto e l’economia sia perché penso che una volta diplomata avrò più opportunità. E in più penso che sia una scuola che anche se non la sfrutti dal punto di vista professionale ti servirà comunque nella vita, perché conoscere economia e diritto serve nella vita. E infine c’è il discorso università, oggi come oggi sono indecisa tra giurisprudenza e psicologia, ma magari strada facendo cambio idea.
Sono una scout nautica da quando avevo 7 anni, in pratica una scout che invece di andare per sentieri di montagna va per mare, in barca a remi e a vela, che secondo me è più bello.
Noi scout nautici facciamo anche lavori di carpenteria navale e costruiamo barche in vetroresina, partendo da stampi che ci vengono forniti e fino alla messa in mare.
Ah, tra le tante cose che mi piace fare c’è anche l’animatrice, dal prossimo anno conto di cominciare a fare esperienza sul campo, durante i mesi estivi, magari con i bambini, che con loro ci sono sempre tante cose da fare, da scoprire, da imparare.
Il treno arriva a Policastro con mezzora di ritardo, così come il mitico Giuseppe Jepis Rivello, alla fine siamo andati meglio noi in treno che lui in coda in questa soleggiata Domenica d’Agosto.
Saluti, abbracci, presentazioni, per Riccardo e Jepis è il primo link, quindici minuti e siamo a Caselle in Pittari, sì, proprio lei, Cip, come ormai la chiamano tutti dopo che l’ho raccontata in Testa, Mani e Cuore.
“[…] Io per esempio, certe sere d’inverno, dopo che la giornata è finita e Duccio mi ha sistemato sotto la tettoia ben coperta con il telone per proteggermi dal freddo e dall’umidità, me ne vado con il pensiero a Cip, un paese piccolino come me, meno di duemila abitanti, che se vai in giù in dieci minuti sei nel golfo di Policastro e se vai in su in dieci minuti sei sul Cervati, la cima più alta della Campania. […]
A Cip da sempre c’è una collina e dal tempo dei saraceni una torre che la gente del luogo, con eccessiva generosità, chiama castello. Intorno al castello si sviluppa il centro storico, collegato alla parte nuova del paese da un viale alberato dove si trovano il comune, i due bar, i negozi e la chiesa, diciamo il cuore pulsante di Cip, al punto che gli abitanti lo chiamano “la piazza” e non “il viale”.
Insomma se sei in quel posto lì non hai scampo, la tua vita pubblica ti tocca viverla tra la piazza e i bar. A meno che tu non decida di diventare un inventore di senso, che poi è il motivo per il quale Duccio e io siamo capitati da quelle parti.
A vederli così giovani non si direbbe ma sono passati già otto anni da quando Nino e Giuseppe si sono inventati la riscoperta delle tradizioni e dei mestieri antichi. E così, cercando di vivere, come dice Giuseppe, con un piede nel Cilento, l’altro nel mondo e la testa in rete, hanno provato a disegnarsi un futuro dove non è obbligatorio fuggire dalla propria terra.
Me lo vedo ogni volta Nino mentre racconta a giovani, meno giovani e a vecchietti come noi, seduti in cerchio intorno a un fuoco, quanto sia stato duro, e bello, all’inizio, pensare, organizzare, lavorare affinché da un seme di grano nascessero, come accade in natura, tante spighe e da queste altri chicchi di grano e altri semi, e altre spighe, e altri chicchi di grano e altri semi, e altre spighe, e così via, fino a quando se ne avrà fiato e forza.
Sono nate da qui l’attività di alfabetizzazione rurale per i ragazzi che non hanno dimestichezza con la terra, la gara di mietitura a mano del grano, il recupero di alcune varietà autoctone di grano con le quali a Cip i panettieri, i pizzaioli e i pastai hanno cominciato a fare il pane, le pizze e la pasta, senza dimenticare la biblioteca a cielo aperto, e il tentativo di guardare le cose che accadono con gli occhi di domani.”
Prendiamo i bagagli, li appoggiamo per terra e presento a Riccardo Luciano Fiscina, che con il fratello Patrizio ha messo su il calzaturificio Patrizio Dolci. Luciano ci presenta don Tonino Palmese, che io da qualche parte devo averlo incrociato ma non sapevo che condividiamo la stessa passione per Cip.
Ci sistemiamo nel bar locanda, stanza numero 4, affaccia proprio sulla piazza, scoprirò tra qualche ora che la cosa ha effetti collaterali assai poco piacevoli, e salutiamo Jepis, che ha in programma di andare a mare con Margherita, che manca solo un mese perché diventi sua moglie.
Saliamo su, disfiamo lo zaino (io) e la valigia (Riccardo), telefonata della serie “tutto ok, siamo arrivati” che quella non manca mai, e via diretto verso … Jepis, che sta salendo le scale di corsa le scale.
Io: Che ci fai qui?
Lui: non andiamo più a mare, siete a pranzo da noi, è domenica e mamma dice che non esiste che mangiate da soli.
A casa Rivello il pranzo comincia come la volta precedente con Cinzia, della serie “professò noi non abbiamo fatto niente di speciale, cose semplici, quello che mangiamo noi mangiate voi e vostro figlio” e finisce due ore e diciassette portate dopo con Riccardo and me che siamo indecisi seper tornare in piazza conviene andare a piedi o rotolare.
Il pomeriggio se ne va tra incontri, saluti, presentazioni, una bella passeggiata di quasi due ore fino alla pineta e oltre, un paio di giri nella piazza e Riccardo che a un certo punto mi fa “pà, ma qui se ognuno che incontriamo ci offre qualcosa io tra poco scoppio”.
La sera si parla di politica, di futuro, di cultura e di altre sciocchezze con don Tonino e altri nuovi amici.
Particolarmente belle la chiacchierata su Massimo Troisi, Il Postino e poi Mariangela Melato, che quando l’ho nominata don Tonino ha ricordato che Renato Scarpa, si proprio lui, lo straordinario attore conosciuto al grande pubblico per la parte di Robertino in Ricomincio da tre, che anche lui ama Cip e ci viene spesso, sostiene che “Mariangela è stata la donna più meravigliosa che lui abbia mai conosciuto” e io non ho fatto nessuna fatica a crederlo.
Verso le 11 p.m. Riccardo mi dice “pà, io vado a letto, così domani sto a mille”, io è da un bel pezzo lunedì quando salgo a dormire, anche se dormire è una parola grossa, come vi racconterò da qui a poco.
Lunedì 25 Agosto
Non ho chiuso occhio tutta la notte. Letteralmente, non per modo di dire, neanche un minuto uno di sonno, niente. Perché La Sosta è un bar locanda aperto praticamente 24 ore, nel senso che chiude alle 5 am e riapre alle 6 a.m., e a riempire il ricco intervallo di urla e risate ci hanno pensato dei ragazzi post discoteca che si sono piazzati proprio lì, sotto al nostro balcone.
Notte da incubo, insomma, aggravato dall’ansia per Riccardo che magari non avrebbe detto niente e però glielo avrei letto negli occhi il suo “pà, ma in che posto mi hai portato”.
Mi sono sbagliato anche stavolta, perché Riccardo è Riccardo, e alla domanda “ma tu hai dormito stanotte?” risponde “una bomba, solo il letto un po’ scomodo, ma non c’è problema, a me una volta che chiudo gli occhi non mi svegliano neanche le cannonate”. Confermo.
Tutto questo accade intorno alle 8:30 a.m. ma io sono sceso come tutte le mattine verso le 6:15, però diverso da tutte le mattine, perché ho gli occhi da fuori e sono deciso a spostarmi seduta stante da un’altra parte, sono pronto a dare un morso velenoso a chiunque provi a contrariarmi, ma non a Marta, che lei come i ragazzi che lavorano la notte e tutte/i quelle/i che lavorano qui la gentilezza sembrano avercela nel Dna, tutti sorrisi e cortesia, e così qualunque rabbia ti passa, e pensi che forse a 59 anni è venuto il momento di mettere per la prima volta i tappi nelle orecchie, si si proprio io, quello che per venti anni ha dormito come un ghiro al piano ammezzato di un palazzo al Corso Italia, a Secondigliano, proprio sopra il garage, dalla finestra del bagno ci sei praticamente dentro, con Peppe il garagista che sposta automobili a ogni ora senza contare il rumore delle catene e il cancello che sbatte alle 2 a.m per la chiusura, alle 4 a.m. per la riapertura.
Per le 9 a.m. anche Riccardo ha fatto colazione ed è pronto per la partenza. Il programma prevede la salita a Monte San Michele, ieri sera giovani, meno giovani e aspiranti vecchi ce l’hanno descritta come una sorta di passeggiata.
Il cartello dice San Michele, 2.6 km, il segno zodiacale Vergine mi fa chiedere comunque alla signora che stendendo i panni quando ci vuole per andare su. Più o meno un’ora – risponde -, e naturalmente io ringrazio ma dieci passi più in là dico a Riccardo qualcosa tipo “mammà, che esagerazione, un’ora per fare due chilometri e mezzo, e che salgono, sulle mani?”.
Arriviamo su un’ora e quaranta minuti dopo, è vero che le mie scarpe da barca non sono proprio il massimo e che le pietre sotto le piante dei piedi mi danno i tormenti, ma per quanto mi riguarda senza l’aiuto di Riccardo per molti tratti sarei andato ancora più lento e anche la discesa, poco più di cinquanta minuti, è assai faticosa, mette a dura prova le ginocchia insieme ai piedi, ma alla fine ce la facciamo, certo che ce la facciamo, e come sempre in questi casi siamo assai contenti che ce l’abbiamo fatta.
Finito il lamento, mi resta da aggiungere che i luoghi sono molto belli, che dall’alto il panorama è incantevole, che in una delle grotte cerchiamo con scarsa fortuna di fotografare un pipistrello in volo, e che anche lassù non cediamo, io fotografo Riccardo, lui fotografa me, #noselfie.
Certo, sarebbe stato bellissimo incontrare su un pastore, un curioso, un camminatore, un mistico, per farci fotografare assieme, ma niente, va bene così.
La sera ripenserò alla gentilezza e alla premura di Riccardo, mi dico che merita un discorso a parte, aggiungo che può essere uno spunto per un bel racconto, un giorno o l’altro lo scriverò, questo ragazzo sulle principali è quanto di meglio esiste al mondo.
Per pranzo abbiamo in programma la visita a La Pietra Azzurra, il ristorante pizzeria di Michele Croccia.
Il 30 Aprile 2014, durante La Notte del Lavoro Narrato, avevo mangiato la sua pizza e l’avevo trovata deliziosa, ho detto a Riccardo che non ce la possiamo perdere e lui mi ha risposto “pa’ e non ce la perdiamo”. In più ho ho una mezza idea di intervistarlo per #lavorobenfatto, ma dopo la camminata se non mangio sono incapace di intendere e di volere.
Arriviamo, ci sediamo, Michele non c’è, e dunque a pranzo non c’è neanche la pizza. Momento di scoramento, superato rapidamente dal sorriso di Mimma, la moglie di Michele, e dalla fame che abbiamo.
Tra i primi scegliamo le pappardelle con i funghi porcini, dopo che mi sono assicurato che non ci sia panna né besciamella, per secondo Riccardo una bistecca di maiale e io due salsicce.
Il primo è squisito, ma il maiale scassa, è delizioso, di più, meraviglioso, Riccardo mi dice sei volte “pa’, una bistecca così saporita era proprio da tanto che non la mangiavo”.
Tra le pappardelle e il maiale arriva Michele. Saluti, abbracci, un po’ di chiacchiere, poi chiedo il conto, la risposta è che per questa volta sono ospite suo, che lui mi aveva invitato anche a Luglio, durante il Camp di Grano e poi io non c’ero andato. Tutto vero, ma io insisto, metto sul tavolo la mia briscola migliore, della serie “Michele, così mi costringi a non venire più, perché se non pago, posso venire una volta, la seconda volta no”. Lui sorride, mi guarda, e mi dice “Professò, tornate stasera a mangiare la pizza, vi faccio pagare, promesso”.
Ci stringiamo la mano, come a suggellare il nostro patto, poi gli dico che che avrei una mezza idea di scrivere la sua storia, precisando che è veramente una mezza idea, perché poi dipende da quello che viene fuori, che anche se non faccio le pizze ci tengo anche io al mio lavoro, e una cosa la pubblico solo se mi convince, e se prima non la faccio non lo so se mi convince, e che perciò non si deve prendere collera nel caso io decida diversamente.
La sua risposta: “Professò, non c’è problema, comunque penso che la mia storia vi piacerà”.
Ha ragione lui, la sua storia mi piace un sacco, la pubblico il giorno dopo, se volete potete leggerla qui, penso che piacerà anche a voi.
Il resto del pomeriggio lo trascorriamo al bar, a chiacchierare, a salutare gente, che di camminare per oggi ne abbiamo abbastanza. Al terzo succo di frutta Riccardo mi fa “pa’, per fortuna che stiamo solo pochi giorni, che qui ognuno che ti saluta ti offre qualcosa, qua se non stiamo attenti diventiamo due bott, io al prossimo giro salto”, sorrido e gli dico “io ti seguo a ruota”.
Intorno alle 7 p.m. ci decidiamo a fare cento metri e ci avventuriamo verso la farmacia, ma solo perché devo comprare i tappi. Un’altra notte come la precedente non me la posso permettere.
L’amica Italia, che anche con lei prima durante il Camp e poi nel corso del Palio del Grano abbiamo deciso di superare le formalità, è come sempre gentile, e mi consiglia un paio di tappi tanto economici quanto efficaci.
Alle 8.45 p.m. risiamo su da Michele, mangiamo due margherite squisite, pago e torniamo verso il bar locanda.
Un po’ di altre chiacchiere con gli amici di sempre – Jepis e Margherita, Antonio e Rossella, Rocco e Maria -, e con quelli nuovi, e poi dritti a nanna.
Martedì 26 Agosto 2014
Della serie gli acciacchi del giorno dopo a Riccardo fanno male le ginocchia e a me tutto, in compenso però stanotte ho dormito, un po’ per merito dei tappi, un po’ perché ero distrutto e un po’ perché il casino sotto, al bar, è stato molto meno intenso della notte precedente.
Seduti sulla panchina di fronte al Comune – il temporale della settimana precedente ha creato problemi alla wireless della locanda e da qui possiamo collegarci alla rete pubblica -, decidiamo con Riccardo che oggi la farà da padrone l’ozio. Sto per aggiungere che ho pensato di andare a fare la barba da Mario Greco, barbiere e musicista, suona il corno nella banda del paese, e che mi farebbe piacere farglielo conoscere, quando lo vedo arrivare, diretto a passo sostenuto verso il centro storico. Ci vede, ci saluta, naturalmente ricambiamo, gli chiedo a che ora possa andare a farmi la barba.
Lui: Datemi solo una ventina di minuti, vado a fare una barba a domicilio e torno.
Io: Nessun problema Mario, noi siamo qui in vacanza e tu stai lavorando, dunque fai con calma, al ritorno qui ci trovi.
Ripassa che non sono passati neanche cinque minuti, ci dice che la barba a domicilio è stata posticipata e ci chiede di seguirlo. Riccardo mi dice sottovoce “ma non è che ha rimandato per non farti aspettare?”, rispondo che non lo so, che credo di no, che comunque io sono stato chiaro sul fatto che non avevo problemi ad aspettare.
Il Salone di Mario è particolarmente accogliente, la partitura da Il Barbiere di Siviglia sul muro in alto, i due corni – uno da esposizione, l’altro da combattimento -, bene in vista, l’ouverture di Rossini che si effonde nell’aria, quando mi siedo sulla poltrona sono già una persona felice.
Mario mi riscalda il viso con un panno bianco, poi ci passa una crema “piano pianissimo”, per me intorno “tutto è silenzio”, persino la voce del bimbo che accompagna il papà mi sembra musica.
Mentre mi insapona il mio amico mi chiede se di solito mi faccio fare anche il contropelo, quando gli dico che a 59 anni è la prima volta che mi faccio la barba dal barbiere, che la cosa mi impressiona un poco, che però sono partito da casa con questa idea di farmela fare da lui e così non mi sono portato neanche l’occorrente per fare da solo, il viso gli si illumina come il cielo quando è terso e la luna è piena.
E’ un onore – mi dice -, ma con naturalezza, senza affettazione.
L’onore resta mio – rispondo -, mentre dallo stereo il coro sembra voglia farci il verso.
“Mille grazie mio signore | del favore dell’onore | Ah, di tanta cortesia obbligati in verità. | (Oh, che incontro fortunato! | E’ un signor di qualità.)”.
“Ah, bravo Figaro!, bravo, bravissimo; a te fortuna non mancherà”.
La lama del rasoio scorre gentile e rapida sul viso, io mi rilasso sempre più, quando Mario mi sciacqua la faccia capisco che ha finito. Lo vedo di sbieco che prende un nuovo asciugamano dal cassetto e mentre l’asciuga mi sussurra “prof., non ammetto repliche, per questa volta siete mio ospite, per me è stato veramente un piacere”.
Riccardo non può aver sentito, ma capisce dal gesto della mia testa che ci risiamo, sorride divertito, io provo a protestare, dico a Mario che il lavoro è lavoro, che non esiste che io non debba pagare, che … lui mi stringe la mano, mi ripete che per questa volta è così, mi chiede se possiamo farci una foto, lo abbraccio, facciamo la foto, dopo ne fa lui una a me e a Riccardo, lo ringrazio ancora di cuore, usciamo.
“Pà, e qua ci puoi venire a vivere, nessuno ti fa pagare niente, ti vogliono bene tutti”.
“Riccardo, non sfottere, e comunque è vero che mi vogliono bene, però pure io voglio bene a loro, questo posto mi è entrato nell’anima, pensa che quando ci sono venuto con Cinzia per La Notte del Lavoro Narrato quando siamo ripartiti mi sentivo come uno che sta andando via da casa e non come uno che ci sta ritornando. Questa di Cip è una comunità generosa, ospitale, che crede nel lavoro, che rispetta l’amicizia. Naturalmente non ti sto dicendo che se li prendi uno a uno sono tutti tutti così, sto dicendo che per me questi sono i caratteri salienti di questa comunità.”
“Si, credo che tu abbia ragione, e comunque questo posto piace molto anche a me”.
Parlando parlando siamo a InOutLab, lo spazio di coworking di Jepis e Antonio Torre, e da lì facciamo un salto al bar pasticceria di fianco, la seconda colazione abbiamo deciso di farla lì perché ha tutte cose buone e belle tranne il nome, Sweet Point, che forse risente del passato militare del pasticciere, spesso in missione all’estero, che una volta o l’altra ve la racconto la sua storia dalle missioni di pace alla pace di creme, dolci e cioccolata.
Caffè e succhi di frutta, che a Riccardo il caffè non piace – ebbene sì, nessuno è perfetto – e ritorno verso InOutLab dove armati di mac, iphone 3 ormai superatissimo ma sempre iPhone, iPad et cevesa et cevesa, c’è un mondo social che ci aspetta, e se non possiamo camminare con le gambe almeno navighiamo con la rete.
Intorno a mezzogiorno arriva Antonio Pellegrino e ci dice che per pranzo Riccardo, Jepis, Antonio and me stiamo da lui e Stella. La premessa è sempre la stessa: “una cosa veloce, cose cucinate al momento, ho avvisato Stella mezzora fa”. La realtà è sempre la stessa: pranzo stupendo, antipasto, primo, secondo, contorno, frutta e dolce, e poi tanti racconti di strada, di vita e di scienza, un presente pieno pieno di passato e di futuro, e ancora tanti progetti, che Cip è una comunità tutta da raccontare, e con l’aiuto di Antonio e Margherita ci riusciremo, ma di questo poi un giorno vi racconterò a parte, che questo qui siamo circa a metà e più che un post sembra un romanzo.
Pranzo meraviglioso insomma, se proprio devo mettere un segno meno a qualcosa lo metto al telefonino di Jepis, che quello non sta zitto un minuto, che poi lui si dispiace veramente anche se in realtà la cosa funziona così solo per diciotto ore al giorno.
Usciti da casa Pellegrino Salomone ci dirigiamo verso InOutLab per recuperare l’auto di Jepis. Il programma prevede la visita alla Fiscina Farm, che come vi ho ho detto è ormai nota in Italia e nel mondo come calzaturificio Patrizio Dolci.
Entriamo, neanche abbiamo salutato Patrizio Fiscina, anima e motore produttivo dell’azienda, che arriva Margherita, è lei che ha il compito di raccontare a me e a Riccardo come si fa una scarpa.
La competenza, la semplicità e la gentilezza con cui Margherita ci spiega il ciclo produttivo dell’azienda è semplicemente affascinante, facciamo a gara a non perderci niente, in particolare Riccardo, che io ogni tanto butto l’occhio qua e là, e penso che comprerei volentieri un paio di scarpe, ma tanto per cambiare l’ultima volta me le hanno regalate, come potete leggere qui, e dato che non mi ricordo se ho fatto il patto preferisco desistere.
Finito il giro nei reparti saliamo su, dove ci aspetta Luciano Fiscina, anima e motore commerciale della Patrizio Dolci. Luciano ci racconta di coinvolgimento e partecipazione, dell’importanza che nessuno si senta escluso, dell’interruzione per il pasto sfalsata (un’ora per chi viene da fuori Cip, prevalentemente manodopera maschile, e mangia nella mensa, due ore per chi è di Cip, prevalentemente manodopera femminile, che così c’è il tempo di andare a casa, di preparare qualcosa, di gestire il ritorno dei figli da scuola), della volta che hanno affittato un pullman e sono andati tutti assieme alla Fiera di Milano, “perché è importante che chi lavora si renda conto con quanti concorrenti ci si confronta, di come è importante che le scarpe che fai tu siano più belle e più convenienti di quelle che fanno gli altri, che sono tantissimi, e vengono da ogni parte del mondo”.
Va bene, lo so che prima ho detto di no, ma una piccola cosa di quello che sto meditando da tempo ve la voglio anticipare: l’idea è di dedicare una riflessione al modello di sviluppo MadeInCip, e di “usare” la Patrizio Dolci come Case History, ho chiesto ad Antonio Pellegrino, Luciano e Margherita Fiscina di darmi una mano, sento che questa è la volta buona, alla fine aveva ragione mio padre “cu ‘o tiempo e cu ‘a paglia s’ammaturano ‘e nespole”.
Usciamo dalla Patrizio Dolci, facciamo un rapido passaggio per la bottega del fabbro Giuseppe Pisano, zio di Jepis di parte materna, c’era anche lui Domenica al pranzo in casa Rivello, che ci racconta un po’ del suo lavoro e un po’ delle fatiche burocratiche che ti aspettano persino quando vuoi fare delle cose per migliorarla, e ampliarla, la tua attività, dopo di che ci dirigiamo dall’artigiano Mastro Domenico, zio questa volta di parte paterna, che crea e realizza sandali, da lui ci ero stato con Alessio come potete vedere qui, ma devo dire che a distanza di due anni ho trovato tante nuove idee, e creatività, e voglia di coinvolgere i giovani “perché poi sa, alla fine solo loro il futuro, è anche per loro che ha senso fare tutto questo”.
A volte le persone non mi credono quando dico che è questione di tempo, ma alla fine il lavoro, la serietà, la bellezza, alla fine portano sempre risultati, eppure sentite cosa mi ha detto Cinzia quando le ho raccontato delle nuove collezioni di scarpe e di sandali: “Vincenzo, due anni fa, quando tornammo da Cip, eravamo noi a parlare agli amici di questa bellissima realtà, non sempre con un successo pari al nostro entusiasmo. Quest’anno mia sorella Paola prima, e la mia amica Daniela poi, che appena si conoscono tra loro, mi hanno chiesto “ma non eravate voi che ci avete parlato delle scarpe e dei sandali di Cip?, perché non ci andiamo?”, e io: “guarda che ci vogliono due ore di auto da Napoli”, e loro: “e che fa, me ne hanno parlato delle mie amiche”, “ne ha parlato il TG3”, “le ho viste in un negozio e sono davvero molto belle”.
Il resto del pomeriggio sera lo passiamo a casa base, il bar locanda “La Sosta”, ottant’anni portati quasi bene, che un po’ di cose da sistemare qua e là ci sono, ma i lavori sono già programmati.
E’ Vincenzo Fiscina, uno dei titolari, a raccontarmi che fino a quando non è stata aperta la superstrada, fine anni 70 inizio 80, questo è stato un punto di snodo decisivo, “bisognava passare per forza di qua, si per andare al mare che per andare su, verso il Vallo Di Diano”.
Mi dice che i suoi bisnonni avevano la licenza per il servizio di trasporto, che si chiama da sempre La Sosta perché la gente ci si fermava sia per mangiare che per dormire, che un tempo dentro c’era una mangiatoia per gli asini, che quando c’erano le fiere arrivavano con molti animali e si dormiva sui sacchi, che ancora oggi durante le fiere si fa il panino con il soffritto.
“Sai, qui il soffritto è considerato da sempre un piatto prelibato, fa parte della nostra storia, della nostra tradizione, ricordo che mia madre cucinava pentoloni enormi di soffritto”.
Anche la scelta di tenere aperto il locale tutta la notte viene da lontano, e continua ancora oggi perché certo è un lavoro, ma è anche la vita che gli piace, il contatto con i giovani, la voglia di essere per loro un punto di riferimento, l’organizzazione di eventi in estate.
“Sai, quest’anno con gli Almamegretta abbiamo fatto 1330 persone, e l’anno prossimo magari facciamo Estate a #Cip, e d’inverno il piano bar, insomma si ci saranno molti cambiamenti, quello che non cambierà mai è l’aria di famiglia, il modo di stare assieme, che qui quando ti siedi al tavolo nessuno ti assilla perché devi consumare”.
Confermo. A La Sosta funziona in maniera assai diversa dalla canzone di Giorgio Gaber, lì “che noia la sera, che noia la sera qui al bar”, qui pieno di gente bella, vera, che anche a #Cip non mancano certo i problemi, le ombre, le contraddizioni, che non è mica il Paese della Cuccagna, però come ho detto a Riccardo te ne accorgi che che qui si vive di lavoro, e l’amicizia è un valore vero.
A proposito di amici, ve ne racconto uno per tutti, un nuovo amico, nuovo nel senso che non fa parte della band storica di InOutLab, ci siamo conosciuti davvero durante il Camp e soprattutto il Palio di Grano 2014, che lui guida il Rione Taverna e lo fa in una maniera mirabile, davvero straordinaria.
Si chiama Dino Salamone, lavora alla Iren Energia, è un bravissimo cuoco e uno straordinario organizzatore, un uomo che come tutti gli uomini veri la vita a volte gli dice bene e altre volte no, eppure lui ti accoglie sempre con il sorriso.
E’ appassionato di ballo latino americano, è stato Assessore allo Sport di #Cip, ma la cosa a cui tiene di più in ambito sportivo è il settore giovanile che ha messo su a partire dal 1993, perché “sai ho aiutato tanti ragazzi a diventare uomini, certo nello sport ma soprattutto nella vita. E’ stato allenatore della juniores del Sapri calcio e responsabile del settore giovanile del Casal Velino, ha ricevuto in premio una bellissima targa dal Comune di Monte San Giacomo, dove portava in ritiro le sue squadre, per i valori che trasmetteva ai ragazzi e per il modo in cui riusciva a fare dello sport una scuola di vita.
Si, è fatto proprio così Dino, un cuore allegro e grande, sempre dalla parte dei più deboli, la capacità di tenere assieme persone di ogni età, di far venire fuori da ciascuno il meglio, di cogliere in ogni situazione il lato positivo, come quando durante il Palio che tutti si affannano per vincerlo e lui invece conduce la sua squadra verso l’ultimo posto, abbastanza lontani anche dal settimo, che alla fine quello è l’unico modo per conquistare la ribalta, che quando tutti hanno finito gli occhi del pubblico sono tutti per te, l’anno prossimo venite a vederlo mentre detta il tempo e predica calma, e ricorda di fare bene le cose, che non è mica un caso che i premi per la mietitura fatta nel modo migliore e per il miglior accatastamento del grano siano andati proprio alla sua contrada.
Mercoledì 27 Agosto
Notte tranquilla, Riccardo che continua a essere il protagonista della serie “Suonate pure le vostre trombe che tanto io una volta addormentato sono sordo come una campana” e io con i miei tappi a intermittenza, che sì, un poco mi danno fastidio e dalle 4.00 alle 6.00 a.m. riesco persino a fare senza.
Oggi la mattinata abbiamo deciso di passarla al mare, Jepis ci porta giù e poi ci verrà a riprendere, ci vogliono davvero 10 minuti per Policastro, che di certo Palinuro è più bella ma ce ne vogliono 45 di minuti, con quelli del ritorno 90, dunque semplicemente non esiste.
Scesi dall’auto facciamo per dirigerci alla spiaggia libera, prima però mi guardo intorno, vedo sabbia e sassi e penso che noi abbiamo soltanto un asciugamani.
Io: Riccà, andiamo al Lido qui di fianco, cosa costerà mai, mi sembra più una spiaggia attrezzata che un lido.
Riccardo: pà, come vuoi, per me va bene tutto.
Sì, questo ragazzo qua ha bellissimo carattere, mai che crei un problema, mai che si lamenti, tu dici “come va?” e lui risponde “una bomba”, tu dici “facciamo così” e lui risponde “non c’è problema”.
Naturalmente tutto questo accade se sta rilassato e in vacanza, che se invece sta studiando non gli puoi parlare, se ha finito di giocare a pallavolo peggio che andar di notte, quando gli devi dire qualcosa nove su dieci sta sintonizzato su “Pà fai presto che non ho tempo devo fare questo e pure quest’altro”, e poi non è che lo puoi tanto contraddire, che lui già quando aveva 14 anni era grande, nel senso che “faceva l’omm”, “si atteggiava”, in certi momenti per farlo ragionare o lo dovevi minacciare o lo dovevi mandare a quel paese, meglio la seconda, perché poi lui ci pensava su e cambiava atteggiamento.
Sì, insieme al fatto che di suo è un cuor contento, un’altra sua bella caratteristica è che ci pensa su, anche quando ci litighi lui poi ci pensa su, e poi ci arriva da solo, e cresce, non solo fisicamente, ma con la testa, e poi è affidabile, come del resto il fratello, nel senso che se dice che una cosa la fa si organizza e la fa, magari con i suoi accorgimenti e il suo metodo, ma la fa, e la fa bene, puoi star sicuro.
Al lido spiaggia attrezzata l’ombrellone e due lettini 8 euro, una pacchia, ci sistemiamo, ci mettiamo a raccogliere un po’ di pietruzze, ci facciamo il bagno, ritorniamo a caccia di pietruzze, alcune le fotografiamo, ci facciamo fotografare, la mezza giornata vola via che è un piacere.
Jepis arriva alla 1:20 p.m. alla 1:35 p.m. siamo su, chiamiamo Antonio Torre e ci dirigiamo verso l’Osteria Tancredi, è il nostro ultimo giorno qui, l’indomani mattina partiremo presto, approfittiamo di un passaggio con Luciano Fiscina che ha un impegno di lavoro a Napoli, e io ho deciso che non me ne vado una mangiata di maiale alla brace di quelle serie.
Ad accoglierci troviamo Angelo, che ci fa sedere a un tavolo con un bellissimo panorama, e poi ci porta tante verdure fatte in tanti modi strepitosi e tanto maiale, costate, salsicce e poca pancetta, della serie “perché qui le cose finiscono, noi usiamo solo prodotti nostri, chilometro zero, e a un certo punto finiscono, dovete tornare da Natale in poi, che in quel periodo problemi non ce ne stanno”.
Fosse stata viva mamma, avrebbe detto che ci siamo fatti come l’acciaiomo, che ci ho messo una vita e un po’ per capire che è la traslitterazione dall’italiano al casertano-contadino-zoneinterne di Ecce Homo, che lei di norma lo utilizzava nel modo letterale di “guardate che se non fate quello che dovete fare la punizione sarà molto severa”, ma al quale ogni tanto dava anche questo significato figurato, di persone che perdevano i loro connotati originari perché mangiavano o bevevano troppo, che poi anche rispetto alla sua concezione del “troppo” ci sarebbe da discutere ma ne parliamo un’altra volta.
Dopo pranzo ancora un tuffo a InOutLab, che alla serie “vediamo che si dice sui social network” non ci rinunciamo, poi Riccardo va un po’ a riposare e io ritorno al mio posto di analcolica socializzazione in attesa del grande appuntamento serale, Atletico Bilbao – Napoli.
Intorno alle 8.20 p.m. Dino mi guarda e mi dice “Professò, ti devo salutare, io la partita la devo vedere da solo, a casa, per me è una grandissima sofferenza, non ce la faccio a seguirla qui al bar”.
Sorrido, gli stringo forte la mano, lo capisco, nei miei 51 anni di tifo quello vero ho fatto cose da pazzi.
Domeniche trascorse con amuleti e portafortuna di ogni tipo, compreso il teschio a cui accarezzare la testa, quel 5 Maggio che chi se lo scorda più ma mica per Manzoni e Napoleone, per la Juve che all’ultima giornata fa il sorpasso e strappa lo scudetto alla mia Inter. Sì, quella domenica lì io me la sono passata con una radiolina in mano a camminare da solo come un matto per la città e quando sono tornato a casa e Luca, che al tempo aveva 19 anni e simpatizzava per la Juve, mi viene vicino e mi dice, sincero, “papà mi dispiace”, a momenti me lo mangio, ma non così per dire, overamente.
E’ stato con l’arrivo di San José, sì, proprio lui, Mourinho, che ho trovato pace. Per la verità erano già un po’ di anni che non mi prendeva più come prima, super tifoso sì ma fanatico non lo sono mai stato, soprattutto non ho mai perso di vista il significato della parola “sport” e non ho mai fatto finta di non vedere la distanza sempre maggiore tra “sport” e “calcio”.
Con il triplete il tifoso che è in me si è definitivamente placato, ho cominciato a guardare con simpatia al Napoli, anche per complicità con Riccardo, fermo restando che uno spazietto nel mio cuore per l’Inter c’è sempre, ma insomma oggi con allegria e distacco tifo per il Napoli, la squadra della mia città, che almeno se vince posso andare anche io per strada a fare un poco di ammuina.
Com’è andata a finire la partita lo sappiamo tutti, 3 -1 per l’Atletico Bilbao dopo che il Napoli era passato in vantaggio, dovevate vedere gli occhi di Dino quando è tornato, che il tifoso vero lo distingui da queste cose qui, che non è che ti vedi la partita e se perdi dici vabbé, abbiamo perso, che ci vuoi fare.
Mentre si susseguono i commenti, compresi quelli finti dispiaciuti di romanisti e juventini – anche questo ci sta, fa parte del gioco quello bello, e ci sta ancora di più se i soldi che doveva avere il Napoli verranno ripartiti tra Juve e Roma -, arrivano Jepis e Margherita.
Ancora un poco di chiacchiere e arriva l’ora dei saluti, con Antonio, con Rocco, con Rossella, con i tantissimi amici e amiche vecchi e nuovi. Dato che non ha fatto niente per noi in questi quattro giorni (si capisce l’ironia, eh, si capisce?) Jepis ci ha portato della sopressata e de formaggio da portare a casa, che qualche giorno dopo mi vedo arrivare Riccardo che mi fa “pà, la soppressata e il formaggio di Jepis sono una bomba”, ma io questo lo sapevo già.
Con Jepis e Margherita i saluti sono speciali. Quando tornerò, penso a fine Ottobre, loro saranno marito e moglie, si sposano il 27 Settembre, e loro sono speciali per molte ragioni, comprese le parole con le quali mi hanno risposto quando ho detto che io e Cinzia non ci saremmo andati al matrimonio, che Cinzia ci sarebbe venuta volentieri ma io sono allergico a battesimi, comunioni e matrimoni, e che però se loro si dispiacevano o anche i lori genitori si fossero dispiaciuti avrei cambiato idea, perché sono persone meravigliose e non voglio che si dispiacciano per colpa mia. E’ stato allora che Jepis, che lui e Margherita a Luglio, quando mi avevano dato l’invito, mi avevano detto “Vincé, tu e Cinzia siete le prime due persone ad essere invitate, mi raccomando, non fate scherzi”, mi ha guardato negli occhi, mi ha sorriso e mi ha detto “Vincé, devi stare tranquillo, non si piglia collera nessuno”.
Ecco, siamo arrivati davvero al momento dei saluti, mani strette forti e baci sulle guance, ma Riccardo no, lui chiede a Jepis e a Margherita se li può abbracciare, che lui ha bisogno di stringerli forte, non si trova con questa cosa della stretta di mano e dei baci sulle guance. Gli occhi di Giuseppe sono una poesia, si abbracciano, e poi è il turno di Margherita, forza che ci rivediamo presto, alla prossima.
Giovedì 28 Agosto
La sveglia è alle 5.55 a.m., scendiamo giù, facciamo colazione, risaliamo su, riscendiamo Riccardo per le 7 a.m. io una ventina di minuti prima.
Salutiamo Marta, che c’è sempre lei la mattina e ieri ho avuto il piacere di capire meglio quanto impegno mette nelle cose che fa e quanti bei progetti ha per la testa.
Esco fuori e trovo Jepis. Lo guardo, sorrido, mi dice “devo abbracciare un’altra volta Riccardo, l’abbraccio di ieri non mi è bastato”. Della serie cose che accadono a #Cip.
Qualche minuto ancora e arriva Luciano, il viaggio è piacevolissimo, discutiamo di futuro, dell’azienda, di #Cip, dell’Italia, ma di questo vi racconto davvero la prossima volta, altrimenti non la finiamo più.
PS
La foto di Jepis e Margherita l’ho “rubata”, una più estiva non l’ho trovata, ma questo post doveva concludersi con la loro foto, perciò accontentatevi, che poi i loro sorrisi sono belli e quando rileggerete il post tra un mese vi sembreranno gli unici intonati.
PPS
Riccardo ha fatto un sacco di foto, ancora un pò di tempo, e le pubblico tutte da qualche parte.