Essere felice. A Napoli
di Serena Sorrentino
Squilla il telefono, la voce sempre gentile, sommessa, tentenna all’inizio nella richiesta e poi arriva al punto, Vincenzo mi chiede se sono disponibile a scrivere la prefazione alla sua ultima fatica letteraria, raccontando al contempo la mia storia con Napoli e il Lavoro. Non ho alcun esitazione e accetto.
Il compito è arduo, a convincermi da subito è stato quel “con”, la mia storia con la città. È incredibile, ho pensato, non è una casualità, siamo napoletani ed è così, noi abbiamo una storia con la nostra città. Lo scriviamo nelle poesie, nelle pieces teatrali, nelle canzoni, abbiamo una concezione della cittadinanza partenopea che va ben oltre l’identità territoriale, è viscerale, siamo nati e cresciuti, educati alla vita e alla morte dalla città, che non è solo uno spazio fisico, bensì un complesso coacervo di codici e culture che determinano modi di vivere e di relazionarsi che hanno caratteri di unicità. Un napoletano può adattarsi in qualsiasi contesto, è il viceversa a non essere sempre possibile.
Non cambierei la mia vita in relazione alla mia città con nessun altro luogo, che potrebbe al massimo essere una residenza, ma mai una storia di passione.
Nel suo ultimo film, “Passione”, Turturro narra il rapporto viscerale tra la città e la musica, soprattutto ci dice del paradosso della coesistenza di una straordinaria capacità poetica e la crudezza di vita, la profondità nell’utilizzo della tastiera dei sentimenti e la miseria storica nella quale essa è stata esercitata.
Leggendo il libro, o meglio le storie raccolte, la sensazione che ho avuto è stata quella che l’autore volesse farci un regalo: portarci riga dopo riga ad acquisire la consapevolezza che Napoli è in fondo un pezzo determinante per il sé, in ognuno di noi, ed è anche l’insieme, quel non luogo in cui, ognuno di noi, ritrova il proprio agio, con tutte le ferite ed i dolori che l’essere napoletani, vivendo, ci procura. Ho letto una volta in un’intervista ad uno scrittore arabo in visita a Napoli una sua affermazione che mi ha colpito molto: “come può una città così grassa e sporca essere così calda e accogliente?”. Questa è la definizione dicotomica che preferisco.
Lavoro, non lavoro, migrazione, il rapporto con gli studi, con la sofferenza e con la realizzazione lunga e farraginosa di un progetto di vita, le pagine che seguono con la semplicità dell’autonarrazione raccontano di più che delle belle biografie. Ci raccontano con leggerezza e profondità, esercizio non facile, la vita del Paese reale, quello che non fa notizia se non per cronaca, il lavoro, quello vissuto e praticato, anche a Napoli.
Per ciò che attiene me, ad esempio, ho incrociato la rappresentanza sociale per bisogno, per necessità di affermare diritti negati. Le esperienze di lavoro sono state saltuarie e frammentate come per tante e tanti, ma il sindacato prima studentesco e poi dei lavoratori è stato parte determinante.
Quando a 23 anni fui eletta in segreteria confederale della Camera del Lavoro di Napoli, ne volli trarre subito due insegnamenti: il primo era che essere una “novità” non voleva per forza dire essere una “innovazione”, l’altro era che non avrei mai dovuto smettere di studiare perchè il nostro è un mestiere difficile, che ci chiama a sfide sempre più alte, ci porta a rappresentare le lavoratrici e i lavoratori, le persone che hanno dedicato una vita al lavoro e ora si trovano in pensione così come le future generazioni, soggetti in formazione per i quali il precariato rischia di rimanere un’ambizione se non si inverte il pericoloso processo di destrutturazione del diritto del lavoro in atto e non si rimette in moto un meccanismo di crescita e sviluppo, a partire dal Mezzogiorno.
Essere parte di una storia collettiva centenaria che è storia sociale e civile dell’Italia repubblicana, cercare di essere all’altezza del compito, in un’area metropolitana come quella di Napoli, in Cgil, non è stato facile. E anche se sono partita dall’essere una rappresentante degli studenti di un liceo di Arzano, area nord di Napoli, e mi ritrova oggi a essere in segreteria nazionale della Cgil, la più giovane donna meridionale, so che tutto questo non deriva da meriti personali, che prima di tutto è merito di chi, da quando avevo tredici anni, mi ha affidato la delega a rappresentare le proprie istanze, è merito delle compagne e dei compagni che ho incrociato in questi anni di militanza e direzione sindacale, donne e uomini che mi hanno generosamente regalato pezzi di esperienze che in tutta una vita non avrei avuto modo di assimilare, di tutti quei tanti e tante che non mi hanno concesso l’attenuante della giovinezza ed hanno preteso che fossi in grado di sostenere il ruolo, lavorando duramente, e infine anche di lei, della “nutrice”, della mia città a cui ho sempre pensato come a una monade.
Negli anni dell’esperienza territoriale ho avuto esperienze nei settori pubblici, occupandomi della contrattazione sociale e territoriale, in quelli privati, quasi tutti, nel sociale, nella conoscenza, ho girato quasi tutti i comuni dell’hinterland per iniziative e contrattazioni. Quasi, perché ammetto di non essere mai stata né a San Paolo Bel Sito né a Roccarainola.
Posso dire di aver toccato con mano una parte consistente dell’unicità partenopea legata alle dinamiche di governance del territorio e di governo dei processi di sviluppo.
Nelle giornate buone, nelle esperienze negoziali, ho conosciuto innovazione, genio, determinazione, spirito pubblico, etica del lavoro e di impresa, correttezza istituzionale e solidarietà vera. In quelle non buone ho incontrato indolenza, corruzione, malgoverno, affarismo, negazione del valore sociale del lavoro.
Tutta la mia esperienza con la Cgil di Napoli parte e termina in via Torino16. Lì mi recai a tredici anni, rappresentante d’istituto, per incontrare altri rappresentanti e fondare il sindacato degli studenti medi, poi anni dopo con il sindacato universitario. Da lì a Roma, per un anno nell’esecutivo nazionale, ma è sempre a via Torino che tornerò per iniziare la mia più bella ed appassionante avventura, l’esperienza di segretaria della Camera del Lavoro. Da lì infine sono partita per Roma, in Cgil nazionale, prima come responsabile delle pari opportunità ed ora in segreteria nazionale. Via Torino è stata per diciotto anni la mia casa, non il mio luogo di lavoro. Sì, perché quello di sindacalista non è un “mestiere” anche se per farlo devi avere “mestiere”, è una missione.
Di Vittorio, Lama, Trentin, Cofferati, Epifani, interrogati per il centenario rispondono tutti che l’essere sindacalisti e della Cgil vuol dire essere dalla parte degli ultimi, dei poveri, di chi sta peggio. A Napoli significa stare praticamente con i due terzi della popolazione. Le Camere del Lavoro svolgono una funzione sociale, vi arrivano tutte le ansie, si manifestano tutti i bisogni, occorre sempre essere preparati a tutto. Se si vive il proprio ruolo a servizio della causa e degli altri, cosa che ho provato a fare e continuo ad avere come ambizione, si può avere la fortuna di vivere in una comunità vera, con i pregi e difetti dell’animo umano, ma onesta e saziante. Porto con me non solo compagne e compagni di lavoro, di battaglie e di idealità, ma anche amicizie sincere, rarità eccezionali. Facciamo ancora tanto, come Cgil, per mantenere spirito civico, tensione democratica, trasmissione di valori come accoglienza e solidarietà, per dire che anche laddove la povertà dilaga c’è un solo strumento di lotta all’illegalità, alla depauperazione del territorio, alla dismissione produttiva, di costruzione di identità sociali positive: il Lavoro. Spesso in taluni comuni e alcuni quartieri non c’è altro che una chiesa, una scuola e una sede della Cgil.
La crisi profonda in cui è precipitata la città, da lungo tempo, sembra derivare dalla perdita della sua anima; Napoli si è rassegnata, non combatte più, si lascia violare senza reagire.
Le responsabilità non si possono ricondurre a personalizzazioni, piuttosto siamo noi, i napoletani, che abbiamo tradito. La città dei bambini, della normalità, della cultura, della valorizzazione del proprio patrimonio artistico, architettonico, quand’è che ci siamo rassegnati a rinunciare al sogno?
Abbiamo smesso di reagire, individualmente e collettivamente, ed invece è proprio questa la caratteristica principale di cui avremmo bisogno; siamo tutti sindaci, allenatori, imprenditori, ci facciamo sempre i fatti degli altri, partecipiamo alla vita del palazzo, del quartiere, del posto di lavoro, della strada, ma non riusciamo più a vedere la Bella Napoli.
Certo chi ha responsabilità di governo, chi è classe dirigente dovrebbe dare l’esempio, ma questo rischia di diventare un alibi infinito, anche su questo punto concordo con ciò che scrive Vincenzo.
Credo che leggendo le storie raccontate in questo volume ognuno potrà alla fine riconoscersi e condividere le esperienze che vengono narrate, tante diversità, di genere, di generazioni, di ceti sociali, ma alla fine con la stessa ambizione: essere felice, a Napoli.