Allestire il cantiere delle idee
Serendipity. Concetto sconosciuto ai più. Buffo anzichenò. Con un certo non so che di magico. Una sorta di supercalifragilistichespiralitoso della ricerca sociologica. Che si deve alla genialità di Robert K. Merton. Che lo ha riferito «all’esperienza, abbastanza comune, che consiste nell’osservare un dato imprevisto, anomalo e strategico, che fornisce occasione allo sviluppo di una nuova teoria o all’ampliamento di una teoria già esistente».
Perché vi raccontiamo tutto questo? Perché abbiamo un’idea. L’idea che l’interazione di menti preparate in ambienti socio cognitivi serendipitosi possa diventare un acceleratore di opportunità per tutti quei soggetti – città, imprese, università – che hanno deciso di puntare sull’innovazione. Scrutare i segni del tempo, ridefinire il proprio ruolo nella società, conquistare nuovi spazi di mercato. L’idea è insomma che “per genio e per caso” si possa crescere di più. E sfruttare meglio le opportunità.
La nostra idea ha una storia alle spalle: quella di Piero Carninci, scienziato triestino che con Yoshihide Hayashizaki dirige il Fantom International Consortium, promosso dalla Riken Genome Network Project con 45 istituzioni e 192 scienziati di 11 Paesi.
Perché la sua storia è importante? Perché in Italia Carninci non ha trovato la possibilità di stabilirsi come ricercatore. Perché dalle nostre parti le domande per lui usuali erano: «Prenderòlo stipendio?» o «devo cambiare lavoro?» Mentre appena giunto in Giappone sono diventate: «Come capire la funzione del genoma?» o «come sviluppare tecnologie che permettono l’analisi in parallelo di molti geni?».
Perché insieme alla sua nutrita band di cervelli ha scoperto che il trascrittoma (Rna) modifica il Dna e identificato i promotori contenuti nel genoma. E perché la sua storia ha una morale. Che lui stesso ha così sintetizzato, in un articolo: «Dall’Italia ho avuto tantissimo, in termini di educazione e primi anni di esperienza lavorativa. Tuttavia, nel momento nel quale avrei potuto restituire qualcosa al mio Paese, non c’e stata nessuna struttura pronta a una collaborazione produttiva. Invece in Giappone, come negli Stati Uniti, la ricerca è un investimento in conoscenza e il ricercatore è considerato uno che deve produrre conoscenza e brevetti per lo sviluppo del Paese».
Nessun uomo è un’isola. E nessuna idea. Come ci ha raccontato la copertina di Nòva, Genius Loci, del 6 luglio scorso. Ma la forza della nostra idea sta dunque nella sua possibilità – capacità di prendere atto, creare senso, sfruttare il potenziale. Prendere atto di che cosa? Del permanere – a prescindere dagli argomenti in questione, siano essi i distretti della conoscenza o le nuove forme di marketing territoriale, per restare all’esempio citato – di una oggettiva difficoltà a uscire dai confini della sperimentazione e a delineare una prospettiva nella quale le buone pratiche siano la norma.
È un prendere atto che non significa subire, ma farsi carico fino in fondo di tale difficoltà per avere più possibilità di superarla.
Come? Ad esempio guardando alla realtà come a una costruzione continua, il prodotto dell’attività delle persone che danno senso alle situazioni che hanno istituito e nelle quali si trovano calate.
È la logica del sensemaking, la cui definizione è «un processo fondato sulla costruzione dell’identità, retrospettivo, istitutivo di ambienti sensati, sociale, continuo, centrato su (e da) informazioni selezionate, guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza».
Proprio il carattere di cantiere dai lavori perennemente in corso caratteristico del sensemaking favorisce la possibilità di fare un salto culturale dalla Grecia alla Cina e passare dal modello di efficacia basato sulla massimizzazione del rapporto mezzi, fini a quello basato sulla capacità di sfruttare al massimo il potenziale insito nella situazione data. Un modello che utilizza al meglio tutti i fattori e i dati disponibili. Accompagnando i percorsi invece di avere la pretesa di guidarli. Facendo in modo che l’effetto sia
prodotto dalla situazione stessa.
In definitiva, la nostra idea è che in Italia esistano molte condizioni, in termini di intelligenza, creatività, spirito di iniziativa, capacità di innovazione, favorevoli allo sviluppo di ambienti socio cognitivi serendipitosi e dunque all’attivazione di processi virtuosi “per genio e per caso”. E che davvero ci possano essere migliaia di “Serendipity Lab” nel nostro futuro, specie se le istituzioni, le imprese, le università riusciranno a interpretarne la necessità e ad accompagnarne la crescita. A favorire la propensione a (ri) definire identità, attivare e dare senso agli ambienti nei quali operano. A incentivare la voglia di fare rete. A sostenere, come ha suggerito Enzo Rullani su questo stesso giornale, la capacità di industrializzare le idee migliori. Come sempre in faccende di questo tipo, niente è scontato.