Lo spreco dei saperi
Brain drain. Cervelli che fuggono. Cervelli che a Napoli sono soliti anticipare i soldi per comprare carta e penna e a Trieste risparmiare sulle spese per raggiungere il laboratorio. E che appena mettono piede negli USA o in Giappone si ritrovano catapultati nel mondo magico della ricerca con la erre maiuscola. Dai parco giochi di periferia a Disneyland. Tutto quanto fa opportunità. Crescita professionale. Valorizzazione del proprio genio.
Ci sarà un motivo se l’edizione 2006 dell’European Innovation Scoreboard redatto dal MERIT e dal JRC per conto della Commissione europea, colloca l’Italia tra i sette Paesi che si sono lasciati trainare nella classifica dei 33 paesi (i 27 UE più Croazia, Giappone, Islanda, Norvegia, Svizzera, Turchia e USA) relativa alla propensione all’innovazione. Non sorprende che Giappone e Germania siano tra i 6 paesi considerati leader d’innovazione, né che USA, Regno Unito e Francia siano tra gli 8 che più hanno adottato tecnologia e prodotto know how. Sorprende almeno un pò che l’Italia non sia neppure tra gli 8 paesi che si sono adoperati in maniera significativa per migliorarsi.
Va detto che nel rapporto con USA e Giappone la stessa Europa non sembra reggere il confronto. Pia Locatelli, parlamentare europea PSE, ha ricordato ancora nel giugno 2006 che 400.000 ricercatori laureati in Europa in scienze e tecnologie si trovano negli USA. E le stime forniteci da Philippe de Taxis du Poët, responsabile della Sezione Science & Technology della Delegazione UE in Giappone, dicono che i circa 7500 ricercatori europei lì presenti rappresentano il 24,9% del totale dei ricercatori esteri, a fronte del 48,4% dell’Asia e del 17,7% del Nord America.
Difficile fare salti di gioia. Ma qui è Rodi. E qui, come scriveva il grande vecchio di Treviri, bisogna saltare.
Ma torniamo a casa Italia. Alle ragioni della fuga. Che sono naturalmente tante. Di ordine economico. Organizzativo. Culturale.
La scarsità, ai limiti della decenza e oltre, delle risorse investite in ricerca e sviluppo è quella che più delle altre rischia di condannare il Paese al definitivo declino. In un incompleto elenco di fattori non possono mancare la scarsa propensione sia all’interazione che alla competizione tra istituti e strutture di ricerca; la troppa appartenenza e il troppo poco merito nella selezione delle risorse umane; l’università che, in particolare dopo la “riforma”, riesce sempre meno a essere una incubatrice di opportunità per chi ci lavora e ci studia; la differenza abissale nel modo di concepire la ricerca da parte delle grandi imprese italiane rispetto a quelle dei paesi leader.
Facciamo un esempio?
Piero Carninci, cervello italiano di stanza in Giappone, dove è direttore scientifico del Fantom 3 Consortium (200 scienziati di 45 istituti di ricerca di 11 paesi), risponde così alla domanda relativa al ritorno economico che Riken (l’azienda promotrice del consorzio) si aspetta dalle sue ricerche: “Essendo un non-for-profit il suo obiettivo principale non è fare utili ma avere budget e ritorno di immagine. Il primo arriva dai contributi del governo, dalle attività di spin-off che nel tempo diventano indipendenti e producono business, nuova occupazione, etc., dalle royalties (per la ricerca sul trascrittoma per ora si possono stimare intorno a 1 milione di euro/anno). L’immagine viene dalla tanta ricerca che facciamo, dai risultati che otteniamo, dal riconoscimento da parte della comunità scientifica. Direi che oggi Riken ricava non più di 1/5 di ciò che spende per la ricerca ma naturalmente si lavora per migliorare questo rapporto”.
Le grandi aziende italiane? Hanno deciso da tempo che la ricerca scientifica è un lusso e la possibilità di competere nei settori di eccellenza uno spreco di risorse. Il risultato? A parte la Fiat, con tutti i se e i ma del caso, la grande industria italiana è un’industria che non c’è più, a partire dai settori a più alta tecnologia.
Sta di fatto che il nostro è il solo Paese OCSE a presentare un deficit strutturale nella bilancia tecnologica dei pagamenti. Che il rapporto tra laureati che vanno via e laureati che vengono in Italia è all’incirca di 10 a 1. Che sono in aumento sia i cittadini con alta qualifica che risiedono permanentemente o per periodi lunghi all’estero sia quelli che lasciano l’Italia per un periodo abbastanza lungo da richiedere la cancellazione della residenza. Che siamo il paese europeo con meno studenti universitari stranieri e meno occupati stranieri in attività scientifiche e tecnologiche.
Tutto questo non si traduce solo in una perdita secca di cervelli e di risorse investite per formarli. Accade anche, ovviamente, che i cervelli in fuga contribuiscano in misura significativa alla ricerca e allo sviluppo dei paesi nei quali lavorano. Che l’Italia per utilizzare i risultati delle ricerche dirette dai tanti Carninci in giro per il mondo deve comprare i brevetti (tecnicamente viene definito trasferimento tecnologico inverso). E che tutto ciò non è certo il massimo per la nostra bilancia tecnologica dei pagamenti.
È come nei racconti circolari di Borges, dove inizio e fine si intrecciano, si confondono, si sovrappongono: la scarsa propensione all’innovazione favorisce la fuga di cervelli, la fuga dei cervelli contribuisce ad abbassare il tasso di innovazione, un ancor più basso tasso … e così via discorrendo.
Per quanto tempo continueremo a pensare di potercelo permettere?