Immagino, dunque posso

Questa intervista a Stefano Benni, poeta e scrittore dell’immaginazione è stata realizzata nel 1998 e pubblicata nello stesso anno su Austro e Aquilone, rivista nata da un’idea di Luca De Biase, che ne era anche il direttore, di Rosario Strazzullo e mia.
AustroeAquilone, nella sua versione cartacea, è durata purtroppo poco più di 2 anni, e l’intervista giaceva nelle bilioteche dei fortunati abbonati del tempo e in un file del mio mac,  fino a pochi giorni fa, quando è rispuntata fuori. I contenuti dell’intervista sono esattamente quelli pubblicati allora.

AustroeAquilone: Proviamo a cominciare dai bambini. Quegli stessi che in un tuo libro, La compagnia dei celestini, sfidano il “Potere” organizzando un campionato di calcio di strada con delle regole molto particolari.

Stefano Benni: Non ho il mito del bambino buono e creativo a tutti i costi. E credo che l’immaginazione sia un dono che appartiene a tutti. Ma credo anche che nei bambini in particolare tale dono debba essere rispettato, non debba essere spento.
Ci sono tanti modi di spegnerlo, di far sì che l’immensa varietà immaginativa che si ha quando si è ragazzi venga incanalata, con il risultato di farne delle macchine banali che rispondono non secondo la loro immaginazione ma per essere approvate, per aver riconosciuto un ruolo.
Dico sempre che l’immaginazione non è il giardino di rose dove si rifugia il pensiero, ma un’arma concreta per avere più possibilità. Il pensiero, la fantasia, non sono staccate dalle cose: tutti i grandi inventori sono degli immaginatori pazzi.
L’immaginario può essere una ricchezza reale, un dono che, se coltivato, ti serve per le battaglie di tutti i giorni. La sua importanza è questa.
E l’immaginazione è minacciata da più parti. Ancora oggi quando vado nelle scuole vedo quanta differenza c’è tra gli insegnanti che hanno determinate caratteristiche e quelli che non le hanno, anche se una volta la scuola minacciava l’immaginazione molto più di adesso.
Mi piace fare l’esempio del “fuori tema”.
Tutti i bambini hanno una unicità di scrittura che però con questo fatto che i temi spiegano già che cosa vi deve avvenire dentro non viene incoraggiata. Da qui i miei esempi abbastanza scherzosi, quei temi con titoli di sette pagine. Poi ci sono la famiglia, il conformismo delle mode, e negli ultimi anni questa grande macchina fabbricatrice di consenso che è la televisione. Il ragazzo riceve giorno dopo giorno una serie di messaggi che vanno tutti in una sola direzione.
E’ compito di chi l’immaginazione l’ha salvata, magari per miracolo, riproporre quella che è la varietà della cultura, spiegare che la cultura non è fatta di sole poche cose ripetitive ma di tante cose: ci sono i libri, c’è il teatro, c’è il gioco.
Nei Celestini c’è una cosa molto semplice: la differenza fra il gioco che ha delle regole imposte da altri, e la libertà di inventare delle regole.
Io trovo che il modo di giocare dei bambini, il darsi dei ruoli, l’inventare delle regole, sia qualcosa che deve essere assolutamente mantenuto perchè corrisponderà, nell’età adulta, al fatto di poter scegliere i modi di stare nel mondo, alla capacità di convivere con le regole ma mantenendo allo stesso tempo una propria unicità.
In questo senso, come è ovvio, non è la televisione ma il modo in cui è ed è stata usata in Italia che è fetente. Il libro è stato scritto prima che Berlusconi andasse al governo e dunque non si può dire che descriva qualcosa di già avvenuto. Ciò che è successo dopo ha dimostrato però che quella di cui si parlava era una paura reale, che in qualche modo il libro anticipava.
La televisione, che poteva essere una grande macchina di moltiplicazione delle conoscenze, è diventata uno strumento di immiserimento dell’immaginazione, una specie di piccola fabbrica di depressi, una sorta di baby sitter casalinga che spegne l’immaginazione. E’ una televisione che in qualche modo celebra delle ossessioni, spaventa e poi rassicura falsamente. Che è qualche cosa che non fa parte nè del pensiero razionale nè di quello immaginativo: è una caricatura misera di tutti e due i pensieri. A mio figlio, che ha nove anni, non ho proibito la televisione, ho soltanto cercato di dirgli che c’erano anche altre cose. Lui guarda la televisione, e si interessa anche ad altre cose. Credo che in questo modo quando sarà grande avrà più strade davanti.

Incoraggiati, incuriositi, contenti, i due strani tipi non esitarono a sparare una nuova raffica di domande.

AeA: Ma perché in questo nostro Paese sembra così forte la voglia di conformismo? Al punto che in molte aziende c’è ancora il culto dell’eleganza fatta di giacca, camicia e cravatta, quando invece da altre parti c’è molta più attenzione verso i contenuti, la sostanza, le effettive capacità delle persone? E perché piacciano così tanto quelli portati a dire sempre di si?

S.B.: Detto che non penso che sia la camicia slacciata a definire il creativo, non è facile fare una riflessione sul perchè l’Italia abbia maturato questa attrazione verso il conformismo, che tra l’altro l’ha portata ad un esperienza purtroppo disastrosa come una guerra mondiale. Ad un certo punto sembrava di essere vaccinati, perlomeno nei confronti di un tipo di conformismo indubbiamente pericoloso come quello fascista, ed invece, lo vedo nei miei seminari, parecchi giovani sentono la loro diversità: lamentano che i loro coetanei sono molto conformisti e fanno tutti le stesse cose, ma allo stesso tempo esprimono un forte disagio, si sentono un po’ soli. (Bisogna dire anche che ci sono fasi nelle quali, all’opposto, ci sono movimenti, idee, per le quali una persona sente che i suoi pensieri sono condivisi da altri ma avverte che c’è un rischio di conformismo nell’anticonformismo).
L’immaginazione produce spesso una posizione di netta contrapposizione, ed è difficile per un giovane avere una sua precisa unicità.
Bisogna pensare che la cultura è anche questo. La cultura è molto spesso una strada di minoranza. Certe battaglie culturali s’intraprendono in minoranza cercando poi di contagiare la maggioranza.
Quello che forse in Italia è completamente scomparso è il valore del termine, della parola minoranza, che viene infatti confusa con emarginazione, minoritarismo. Invece, e specialmente la sinistra dovrebbe ricordarlo, va rivalutato il senso di questo termine non come separatezza ma come momento iniziale, come la valorizzazione di qualcosa che ancora non c’è.
Nell’invenzione scientifica si è da soli contro un accademia; un artista è solo quando scrive in un modo in un mondo di scrittori che scrive in un altro.
Adesso gran parte delle persone fanno una battaglia culturale solo se ha il consenso del 51%. Alcuni miei colleghi cominciano a scrivere un libro pensando già che dovrà avere comici che lo portano in televisione. Si buttano in un meccanismo che assicura loro il massimo di consenso salvo poi tornare indietro delusi perchè non hanno creato niente. Il fatto è che in questo momento la politica vuole una cultura conformista. La sinistra è andata al potere e ha stranamente ingoiato il veleno dell’avversario, nel senso che apprezza molto un presentatore televisivo o un suo simile che gli può portare consenso, mentre vede non dico con fastidio, ma con certa sufficienza, chiunque dica che la sua storia è una storia di grida non ascoltate.
In realtà non si sta certo incoraggiando l’anticonformismo bensì tutto ciò che è massificato, standardizzato come il cinema americano e la televisione. Del resto, anche i politici di sinistra vivono nei salotti televisivi e poi sostengono che ciò che lì succede è molto importante.
Non so a Napoli, ma a Bologna sono considerati eventi solo i grandi concerti, le grandi adunate mentre tutto ciò che è fatto da poche persone, ed è prezioso, viene vagamente stimato. Questo è il modo di uccidere l’immaginazione della cultura, perchè chiunque sarà portato a pensare che dato che gli esempi della grande politica vanno in questa direzione è meglio seguire il flusso.

Ormai la libido cultural letteraria aveva preso il sopravvento. La voglia di esibire la carica alternativa diligentemente repressa in decenni di onesta militanza nelle organizzazioni di massa era assolutamente trasbordante. E la domanda successiva ne fu una impietosa testimonianza.

AeA: Nel 68 si è sostenuto che bisognava portare l’immaginazione al potere. A trenta anni di distanza, ti pare ancora un tema attuale?

S.B.: Mi verrebbe da dire che l’immaginazione al potere è arrivata con il processo Sofri. E’ Marino che l’ha portata al potere immaginando tutte quelle bugie che ha detto.
Se immaginazione al potere vuole dire immaginare di prendere il potere, e magari rifare le stesse cose, gli stessi errori, con le stesse retoriche, le stesse architetture che hanno fatto quelli di prima, non mi pare abbia molto senso.
Il verbo dell’immaginazione non è nè devo nè voglio, ma posso. Se posso, posso immaginare che esistono anche altre soluzioni, che esistono cose migliori. Solo dopo mi scontrerò con la realtà, sapendo che dovrò assolutamente accettarne il peso, l’inerzia. Non si tratta dunque di continuare a sognare ma di combattere dentro la realtà. Immaginazione al potere non vuol dire pensare che preso il potere l’immaginazione diventi una specie di bacchetta magica ma piuttosto riuscire ad avere più potere senza far sì che esso ti tolga l’immaginazione, riuscire cioè ad andare al potere rimanendo immaginativi e continuando ad ascoltare tutto ciò che al potere si oppone.
Il punto è in qualche modo la capacità di riuscire a mantenere insieme le due parole: avere un potere culturale, cioè la capacità di parlare, di discutere, di avere strumenti forti come la televisione ma senza mai fare calare una parola ultima, mantenendo questa specie di verità penultima, questa immaginazione.
In questo senso il 68, con la sua grande critica al principio di autorità, è servito a tutti, a noi che ci abbiamo creduto e anche ai nostri avversari, anche se è stato descritto come una cosa completamente diversa, come una sorta di età dello sballo.
In realtà non è mai stato questo: era qualcosa che stava dentro la pratica politica anche se ha avuto il torto di non immaginare, di non pensare abbastanza all’Italia, alla Francia, alla Germania, e di cercarsi nel mondo degli esempi come la Cina ed altri paesi piuttosto fetenti.
Io credo comunque che l’immaginazione stia ancora lottando e che rispetto alla politica, che è il mondo della miseria dell’immaginazione, e all’informazione, che è la morte dell’immaginazione, permanga, in modo molto trasversale, per dirla con una parola che a me non piace molto, in ambiti e mestieri molto diversi.
Nei nostri seminari ci sono psichiatri, antropologi, insegnanti, e tutti stanno un po’ riprendendo questo discorso: è proprio vero che la politica è così misera come ce la propone la televisione? è proprio vero che nelle città si può vivere solo sparandosi addosso? è proprio vero che la televisione è ciò che divora la cultura? è proprio vero che la scrittura non esiste più? è proprio vero che Internet è l’unica possibilità di comunicazione del futuro?
In qualche modo l’idea è che forse esista qualcosa di meglio. E che soprattutto esista qualcosa di diverso dall’economia come solo metro di valutazione del benessere.
In realtà laddove si sposa pensiero ed immaginazione non esiste un pensiero puramente immaginativo. Credo che si potrebbe fare una lunga analisi su che cosa è la metafora, su che cosa è il raccontarsi, su che cosa è la bugia. E penso che parecchie persone che si illudono di essere razionali dovrebbero ammettere di essere in realtà dei sognatori in viaggio in uno strano mondo.
Così come mi sembra che qualcosa che negli ultimi anni è stato oppresso dalla miseria della politica stia riprendendo piede. E’ un’inquietudine presente in molti settori, non soltanto tra gli scrittori, ma tra gli insegnanti, che sono molto attivi, tra gli studenti, nel mondo scientifico (nei nostri seminari abbiamo moltissimi scienziati).
C’è molta più immaginazione in una teoria scientifica astronomica che nella politica e quindi gli scienziati sentono molto questo bisogno di definire nuove possibilità rispetto a quello che è il nostro rapporto con la vita e con il mondo in cui viviamo. Sono alcune delle cose che stanno venendo fuori. Che a volte vengono anche banalizzate. E che potrebbero rappresentare, io lo spero, la battaglia dei prossimi anni.

Gli occhi del povero poeta scrittore cominciavano a cercare, con fare discreto, le lancette dell’orologio. Ma ormai i due erano un fiume in piena.

AeA: Torniamo alla comunicazione. Ci sarà secondo te prima o poi una lingua senza frontiere? Una lingua fatta magari di immagini più che di parole? Una lingua in grado di abbattere le barriere linguistiche tra i diversi paesi?

S.B.:
Il sogno di una lingua universale personalmente non ce l’ho. La differenza linguistica può essere una ricchezza perchè fa parte della varietà. Io parlo tre dialetti e questo mi ha aiutato molto nel mio lavoro. Il dialetto può diventare una trincea contro gli altri o può essere un simbolo della varietà della propria lingua, della volontà di non rinunciare alla propria lingua.
Il problema non è una lingua universale, ma il mettere molta immaginazione nella comunicazione. Quando parliamo con un bambino, che ha un codice diverso dal nostro, e ci sentiamo fare una domanda di quelle che fanno loro, cosmiche, su Dio, o sulla Morte, possiamo dare una risposta razionale, codificata, o dirgli non te lo dico perchè tu non capisci (è una risposta spietata, la peggiore che si possa dare), o ancora dargli una risposta debole del tipo Dio è sulla nuvoletta. In tutti questi casi dimostriamo di non avere fiducia né nella nostra immaginazione nè in quella del bambino.
Ma c’è un’altra possibilità. Possiamo, con il massimo del nostro linguaggio metaforico, sfruttare le nostre risorse e andare a fondo di quello che noi pensiamo sia Dio, comunicando con assoluta varietà le nostre idee o i nostri dubbi al bambino, che a sua volta ci risponderà.
Probabilmente, quando avremo trasferito questo metadialogo dal registratore non avrà i caratteri di logicità di una conversazione, però alla fine verrà fuori molta più verità di quanto un no razionale avrebbe comportato.
Lo stesso avviene se parliamo con una persona di un’altra cultura. Io sono riuscito a parlare con i Lapponi. Ho parlato con gesti, intonazioni, segni.
E’ quanto desiderio abbiamo di comunicare che fa la differenza.
Se si parte dal fatto che il proprio codice è l’unica lingua possibile si finisce come Cortes e non ci si accorge di avere di fronte una grande cultura.
Non ho simpatia per le lingue dell’accademia, specialistiche, per iniziati: la lingua dell’economa, della magistratura, della medicina, dei tormentoni della politica, l’inglese tecnico, per certi versi la stessa lingua di internet. Usare termini troppo specialistici mi pare risponda ad una specie di logica di setta. Non è un caso che questi linguaggi si attorciglino su sé stessi, diventino sempre più ostici: essi non sono funzionali alla discussione ma all’imposizione.
Mi pare che proprio a Napoli siate maestri nella comunicazione universale: riuscite a parlare con tutto il mondo perchè avete tutta una serie di modi espressivi, vari tipi di desiderio di comunicare. Se ci si chiude dietro la differenza linguistica non si parlano neanche un bolognese ed un modenese.
L’immaginazione ti fa pensare che con i bambini non si comunica solo attraverso le parole ma anche con i disegni, con il gioco, l’invenzione, i ruoli. Quando i bambini giocano inventano parole per definire le cose ma molto spesso, crescendo, questa capacità la perdono. Mio figlio inventa di continuo delle parole, è creativo: se troverà sulla sua strada un insegnante che si limiterà a dirgli “ma questo non è italiano”, avrà trovato chi credendo di avergli insegnato l’italiano gli avrà in realtà spento l’immaginazione (ovviamente dovrà spiegargli che quello non è italiano, ma dovrà farlo in maniera tale da rispettare ed incoraggiare la sua capacità immaginativa).
Più che immaginare una lingua universale mi piacerebbe che le lingue non dividessero. Credo sia una buona cosa che una persona sappia quattro o cinque lingue. Ma se non c’è una effettiva volontà di comunicare se ne possono conoscere anche dodici: non ci si farà capire da nessuno.

Il poeta scrittore cominciava a dare ormai chiari segni di insofferenza. Sconvolti dalla possibilità di un troppo rapido ritorno alle loro angosce quotidiane, i due strani tipi si cercarono per un attimo con gli occhi: sapevano di essere preparati e intendevano assolutamente evitare che le fatiche della sera prima, quella specie di terapia di gruppo che aveva coinvolto intere famiglie nella ricerca delle domande giuste, andassero perse. Decisero perciò di giocare il tutto per tutto, e formularono la domanda alla quale non si può non rispondere, mai.

AeA: Perché i pescatori sono bugiardi?

S.B.:
L’informazione spettacolo non l’ha inventata Berlusconi. Da ragazzo la mia immaginazione si è nutrita di tante cose, di una varietà infinita di libri, di racconti. < Sono nato in campagna, ho avuto questa fortuna, ed andavo ad ascoltare i racconti di pesca: lì ho capito come è bello raccontare, narrare, anche se era evidente che i racconti che ascoltavo erano pieni di bugie. Ma ai pescatori piaceva raccontare e intanto comunicavano tante informazioni sulla pesca, sulla natura, ed in questo modo insegnavano delle cose.
I pescatori sono dei bugiardi architettonici, hanno tutta una struttura della bugia.
Ho coniato apposta per loro questa famosa legge del coefficiente di retrodilatazione del pesce narrato: quando un racconto comincia il pesce è due metri, ogni minuto che passa il pesce si restringe di qualche centimetro ed alla fine si ottiene un pesce di un metro. A questo punto si divide per due e quella è la reale lunghezza del pesce.
E’ una metafora dell’immaginazione.

D.S.T.:
A Napoli c’è un detto che dice “Accorcia l’anguilla”

S.B.:
Esatto. E’ una metafora dell’immaginazione nel senso che non esiste il grande ed il piccolo: quello che tu vedi da piccolo è grande e quello che vedi da grande è piccolo. L’immaginazione non è gerarchica, io non ho fatto altro che ribaltare questa cosa qui.

Per un attimo, il poeta scrittore abbandonò la posizione modello “con mezza chiappa sto ancora seduto e con una e mezzo sono pronto a scattare” e sembrò quasi a proprio agio sul divano. L’errore gli fu fatale.

AeA: Napoli è una città di mare. E i pescatori sono un pezzo importante della sua storia e della sua cultura. Possiamo dedurne che i napoletani sono dei gran bugiardi?

S.B.:
Nei miei libri parlo dei pescatori di fiume. Ma per la verità anche quelli di mare lo sono abbastanza. Ho degli amici sardi che sono dei professionisti. E sono anch’essi vittime del vapore che viene fuori, che si combina, con le branchie del pesce. E’ l’orgoglio della pesca. Se gli chiedi che cosa hanno preso ti rispondono 30 chili di aragoste, ma quando vai a vedere sono 15.
In realtà i pescatori sono dei bugiardi abbastanza innocui, quelli pericolosi sono altri. Sulla bugia mi piace ricordare un’altra cosa, che a me fa assai riflettere: gli unici che sembra non debbano dire bugie sono i bambini, e ciò la dice lunga sul fatto che la bugia è un fatto di autorità.
I bambini non possono dire bugie, devono dire la verità! Proprio nei confronti dei bambini che sono gli unici che hanno un idea così fluttuante dell’autorità ed avrebbero tutto il diritto di raccontare qualche balla, la bugia è sanzionata.
Poi quando sei grande… Previti, o Clinton. Da grande più che bugiardo sei definito un po’ furbo, un po’ astuto.
Quando la bugia è produttiva in qualche modo funziona: quello che ci spaventa nella bugia del bambino è l’idea che non ci dica la verità, che non riconosca la nostra autorità. E poi ci disturba perché smaschera la nostra ipocrisia, perché è un ritratto in piccolo delle nostre bugie.
E’ una cosa che da una parte è ipocrita e dall’altra rappresenta una precisa invenzione del pensiero razionale.

Era finalmente finita? Macché! Persona estremamente sensibile, il poeta scrittore comprese che i due strani tipi erano veramente strani. E, come spesso accade, non solo per colpa loro. Solo per questo non fece resistenza quando i due, in maniera del tutto unilaterale, decisero che c’era ancora lo spazio per due ultime telegrafiche domande.

AeA: Ti sei riferito spesso ai seminari che tieni a Bologna. Ci puoi spiegare un po’ meglio di cosa si tratta?

S.B.:
I seminari sono nati da alcuni discorsi di persone, psichiatri, antropologi, filosofi, che non hanno voluto arrendersi alla miseria del dibattito, alla poca libertà di discutere, agli scenari già dati, all’idea che bisogna necessariamente seguire gli orientamenti maggioritari, che tutto ciò che nasce e si sviluppa nell’ambito della psichiatria, dell’antropologia, o della filosofia, sia non produttivo, utopico.
In realtà ci proponiamo di capire se ci sono delle possibilità, se è possibile avere una reazione positiva nei confronti della complessità, che quasi tutti vivono in modo depresso: ciò che è complesso per forza deve essere complicato, depressivo e si può affrontarlo solo tagliandolo, riducendolo, immiserendolo.
Nei nostri seminari abbiamo pensato di affrontarla questa complessità, di chiamarla varietà, di vedere cosa c’è di nuovo in giro e partendo da qui abbiamo cominciato a fare questi confronti sulla scrittura, sulla malattia mentale, sulla scienza e, quest’anno, sulla libertà. Il prossimo anno ne facciamo uno sul gioco. Affrontiamo insomma tutto ciò che è in relazione con la parola immaginario.

AeA: Il tuo elogio dell’immaginazione non è un po’ anche un elogio delle identità?

S.B.:
Più che dell’identità, dell’unicità.
Nell’immaginazione ci sono due mostri. Uno è l’Aleph. Ognuno partecipa all’immaginazione di tutti, legge libri che altri hanno scritto, ed è bellissimo poter partecipare a dei racconti, a dei sogni, che appartengono a tutti.
Questa è la socievolezza dell’immaginazione.
Poi c’è l’unicità, che non è separatezza e che vuole dire che se io ti chiedo qual’è il tuo Pinocchio, qual’è la tua Alice nel Paese delle meraviglie, qual’è il tuo Don Chisciotte, so che questo è diverso dal mio e che in quanto tale va rispettato.
Non abbiamo, nè dobbiamo avere tutti, come fa credere la televisione, le stesse tre o quattro figure in testa. L’unicità della propria immaginazione è assolutamente un diritto dovere perchè è qualcosa che ha che fare con la personalità, la capacità di scegliere, con l’autonomia come scelta culturale, che è come dire ciascuno di noi sceglie quali libri prendere, non se li fa raccontare da altri. E questo non coincide, tranne che in casi rari di dandismo, di snobismo, con una separatezza dagli altri. Anche perchè l’immaginazione o è nutrita dall’Aleph di tutti gli altri o si immiserisce.

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