Bella Napoli. Storia della mia gente
Dite la verità, voi l’avete avuta una prof. di matematica che il primo giorno di lezione, classe prima, liceo scientifico, vi ha chiesto di scrivere sulla lavagna due cose due che amate e due che invece non sopportate? Se la risposta è no non vi scoraggiate, non l’ho avuta neanch’io. Io però ce l’ho per amica, un’amica vera, di quelle che ad averle ti si scalda il cuore perché lo sai che ci sono anche se lei vive a Catania e tu a Napoli. Un’amica che ti scrive per dirti che ha comprato una copia di Storia della mia gente e una copia di Bella Napoli e li ha dati da leggere a Simone S. e Giovanni M., ragazzi di prima, suggerendo loro di trovare qualche parallelismo, e che quello che ti ha mandato è il risultato del loro lavoro.
Ho chiesto a Concettina, sì, scusate, magari non tutti la conoscete, la mia amica è Concetta Tigano, perché ha scelto proprio loro, e la risposta è stata “perché Giovanni è un ragazzino molto maturo, impegnato, legge libri, giornali, e la cosa non che isa proprio così usuale alla sua età, Simone invece mi ha sorpreso quando il primo giorno, per rompere il ghiaccio, ho fatto scrivere ai ragazzi alla lavagna due cose che amavano e due che non sopportavano e lui ha scritto il ’68 tra quelle che amava e l’arroganza tra quelle che non sopportavano”.
Solo a questo punto ho cominciato a leggere, e vi dico solo che sono stato contento, perché adesso tocca a voi leggere, e mi piace che lo facciate senza troppe chiacchiere da parte mia. Ah, solo una cosa ancora: ma avete visto come ci sta bene il titolo del libro di Nesi come sottotilolo di Bella Napoli. No, non è per un attacco di megalomania, ho tanti limiti ma non sono stupidi, è per dire che questa idea di raccontare la propria gente è un’idea bella, che vale, che si può contribuire in molti modi, con i libri o anche con le inchieste, come stiamo cercando di fare con Le vie del lavoro. Basta, mi fermo qui, altrimenti finisco per fare troppe chiacchiere.
From Storie della mia gente to Bella Napoli
di Simone S. e Giovanni M.
“L’Italia è (oppure “era”…) una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Il celebre primo articolo della Costituzione racchiude in poche parole tutta l’importanza del lavoro per la vita di ogni singolo cittadino e di un’intera comunità.
Mentre scriviamo queste poche considerazioni sul lavoro, decine e centinaia di lavoratori stanno trascorrendo le loro ultime ore di lavoro o stanno manifestando perché sono in procinto di perderlo. Davanti a loro non vedono più futuro o progetti per sé o per i propri figli, vedono solo un quotidiano fatto di rinunce e di speranze, un presente basato sulla precarietà.
Se è vero che il lavoro è necessario in primo luogo per la sussistenza, cioè per procurarsi i beni primari per la sopravvivenza propria e della famiglia, esso è anche funzionale a una dignitosa esistenza. Il lavoro per essere tale deve conferire dignità, altrimenti è pura schiavitù o sfruttamento. Resta da capire appunto se il lavoro precario non abbrutisca o demotivi il lavoratore al punto tale da fargli perdere ogni tipo di progettualità e di amore per il lavoro. Si perde così anche la nozione di mestiere: questo spesso si tramandava di padre in figlio ed era un valore sicuro per la comunità che poteva ricorrere ad artigiani o tecnici esperti. Oggi purtroppo si usa soprattutto il termine occupazione, come se una persona dovesse soltanto riempire uno slot, liberatosi fortunosamente dopo un’attesa simile a quella che precede la agognata vincita a una lotteria.
Non dimentichiamo, poi, che il lavoro contraddistingue anche la storia di un popolo, ne è il motore, assieme ai suoi principi democratici. Un popolo che lavora è fondamentale per uno Stato che vuole progredire e prosperare in un contesto internazionale, mantenendo la propria sovranità e la propria specificità. Le recenti vicende legate alla stabilità dell’euro hanno appannato la fisionomia classica dello stato che può restare solido e a sé stante e hanno fatto capire come i destini economici possono influire sulle opportunità di lavoro di intere generazioni. Un’intera generazione, hanno detto molti, resterà invisibile, andrà perduta, resterà fuori dalla storia, proprio perché non troverà un lavoro o ne afferrerà solo periodici frammenti.
Un tratto caratteristico e innovativo della realtà economica e industriale italiana, un esempio per tutto il mondo, sono state le Piccole e Medie Imprese (P.M.I.). Queste fino a poco tempo fa erano una splendida storia di successo sia di operai sia di dirigenti, che, fondando il tutto su rispetto e collaborazione reciproca, davano vita ad attività industriali e a produzioni di qualità, che portavano ricchezza anche all’indotto, cioè alle piccole fabbriche o manifatture del luogo che si occupavano della produzione di componenti o accessori richiesti dalle P.M.I. Un celebre caso, reso noto al pubblico solo nel 2010, è contenuto nel libro (vincitore tra l’altro del Premio Strega ) di Edoardo Nesi “Storia della mia gente” che parla di come una P.M.I (un maglificio), nata nel dopoguerra, sia riuscita a diventare una grande impresa per poi essere venduta nel 2004 e vedere il declino non solo dell’azienda ma anche città stessa, che era diventata famosa e rinomata appunto per la produzione di tessuti.
Oggi il lavoro è un valore in crisi sia da un punto di vista puramente economico (i danni a seguito del crollo finanziario del 2008 sono stati ingenti,con aumento di disoccupazione e della precarietà, licenziamenti…), sia etico. Se l’Italia è diventato un paese di poche speranze e con scarse opportunità, in primo luogo per le generazioni più giovani, è perché alle vie del lavoro e della partecipazione ha preferito quelle della ricchezza senza capacità, del comando senza responsabilità, della notorietà senza merito. Perché, a fronte delle tante persone che portano a termine ogni giorno il loro lavoro con passione e con lo scopo di dare un senso alla propria stessa esistenza, ve ne sono altre che danno poca importanza a quello che fanno ritenendolo scontato, o che hanno un’occupazione per loro frustante o insoddisfacente, magari perché sentono quel lavoro estraneo, una forzatura o perché non accettano con senso di umiltà il lavoro per quello che è. Si tratta spesso di persone che non credono che il lavoro possa effettivamente migliorare le condizioni della comunità, che lavorano per portare a casa lo stipendio, non per imparare qualcosa ogni giorno dai propri maestri e dai colleghi, le cui conoscenze sono quanto di meglio il mondo del lavoro possa offrire in termini umani.
Lasciando da parte quelli morali, i motivi materiali dell’attuale “crisi del lavoro” sono da riscontrarsi in una sconcertante e spaventosa disoccupazione giovanile che sfiora il 30%. I giovani, nonostante la loro preparazione al lavoro corredata da lauree e masters, fanno fatica ad inserirsi per il troppo lento e macchinoso ricambio generazionale: i vecchi lavoratori occupano per troppo tempo il proprio posto per poter permettere già ad un giovane di sostituirlo. Inoltre, il nostro paese non valorizza affatto i neolaureati, inducendoli a lasciare l’Italia per trovare stabilità economica e riconoscimento dei loro meriti altrove. Sono questi i presupposti alla base del fenomeno dei cosiddetti “cervelli in fuga”, difficile da arginare, se lo Stato non interviene con opportuni incentivi e non finanzia con mezzi idonei la ricerca.
Un elemento che può sembrare contro corrente è rappresentato dall’occupazione di immigrati. Gli immigrati oggi nel nostro paese fanno lavori umili che ormai la maggior parte dei cittadini italiani non vuole fare perché mal retribuiti o faticosi, come il bracciante nei campi di pomodori, le pulizie domestiche o il lavoro di badanti. È innegabile il fatto che molti di questi immigrati lavorano in nero, senza diritti e coperture assistenziali. È pur vero, tuttavia, che essi contribuiscono notevolmente alla crescita del nostro PIL, anche perché molti di essi sono contribuenti e consumatori. L’Italia dovrebbe prendere come modello altri paesi; nel Regno Unito, per esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, moltissimi immigrati provenienti dalle ex-colonie inglesi, dopo essere approdati nei porti di Sua Maestà, con pazienza e dedizione sono arrivati anche ad importanti ruoli nella società. Dunque non deve sorprendere se si possono trovare manager indiani o kenioti, ruolo che in Italia non è ancora così frequente.
Perché allora una realtà di questo tipo non può esistere nel nostro paese? La risposta è da ricercarsi, purtroppo, soprattutto nel diffuso pregiudizio secondo cui “gli immigrati rubano il lavoro agli italiani”. Un focolare di diffidenza spesso alimentato da partiti politici, che, anzi, ritengono gli immigrati una delle cause della crisi, ma anche radicato nella mentalità di alcuni strati sociali.
Allo stesso modo, i cittadini del Mezzogiorno a volte vengono discriminati in certe sedi di lavoro al nord proprio per razzismo e pregiudizi, secondo cui i “terroni” sarebbero ignoranti e poco professionali nel proprio lavoro. Invece tutto ciò è ben lontano dalla realtà, come sottolinea il libro “Bella Napoli” di Vincenzo Moretti, nel quale sono raccolte dodici storie di cittadini napoletani, storie di lavoro, di passione e di rispetto, che ci offrono spunti di speranza e di ottimismo nella Napoli fatta di mafia e corruzione raccontata in Gomorra da Roberto Saviano.
Ora, nonostante i problemi già esistenti, la situazione sta peggiorando con le misure varate dal governo Monti che, pur necessarie, aggraveranno la situazione. Bisognerà agire presto, quando la situazione finanziaria si sarà assestata, per migliorare l’accesso al lavoro soprattutto dei più giovani e favorire il ricambio generazionale. In fondo una società basata sul lavoro e sui diritti costituzionali è una società civile e democratica, ma, se fosse basata sul lavoro giovanile, essa sarebbe ancora più giusta e proiettata verso un futuro positivo, fondato su idee fresche e nuove, su una progettualità creativa che solo i giovani possono avere.
Non usiamo il lavoro come un vuoto slogan politico o sindacale. Il lavoro è frutto di sacrificio, va conquistato dopo anni di studio e di pratica in bottega o in officina o in laboratorio. Il lavoro non è merce di scambio, non è favoritismo, è giusta ricompensa data al merito.