Chi nun tene curàggio nun se cocca cu ’e fémmene belle


Viviana Graniero
Eccomi qui, volevo partecipare già da un po’ e mi sembrava anche di avere un bel po’ di cose da dire e poi, come qualche volta accade, arrivano brutte notizie (e questo periodo mi sembra un incubo, spero solo che finisca quanto prima e ci lasci un po’ in pace) e la tua mente si azzera. Resetta tutto. E poi dopo qualche giorno scopri che in realtà stai rielaborando tutto daccapo, sotto una luce diversa.
Quello che volevo scrivere non lo ricordo più e probabilmente erano una manciata di sciocchezze, però ho molto più chiaro ora cosa sia il coraggio. La forza d’animo, la voglia di lottare fino alla fine, senza perdere il sorriso nemmeno per un momento. Me l’ha insegnato una cara amica, che ha perso la sua battaglia più dura, ma che ha vinto comunque.

La Musa
Mio padre nn era napoletano, ma da buon marinaio cosmopolita, soleva ripetermi: “a lavà ‘a capa a ‘o ciuccio se perde l’acqua e ‘o sapone”. Il ciuccio in questione, manco a doverlo spiegare, ero io [sorrido] essì, lo ammetto, i miei primi 4 anni con la matematica sono stati anni terribili. pomeriggio tipo: mio fratello in salotto a guardare la tv dei ragazzi, mia madre a casa della “generalessa” nostra dirimpettaia e io e papà seduti al tavolo di tek del tinello muniti di fagioli, patate e mele per capire quelle benedette divisioni [sorrido] ah, troppo ho patito prima di afferrare quante volte il divisore stava nel dividendo e per capacitarmi che la divisione ha a che vedere con la sottrazione ma nn è la stessa roba [sorrido] e poi tutti quei minuendi, addendi, sottraendi, prodotti, uff che fatica, che patimenti! lui, papà, era paziente ma inflessibile, finchè nn gli dimostravo di aver capito BENE nn si andava oltre. Una sera slittammo la cena di un paio d’ore; il tavolo era occupato da ogni sorta di orpelli atti a farmi capire le operazioni aritmetiche, che nn si potè apparecchiare per la cena. Il bello è che poi ho fatto il liceo scientifico! 😀

Felicia Moscato
Ricordo ancora quei giorni andati della mia adolescenza …
Allora vivevo in casa della nonna, eravamo in 7 nella stessa casa…
Ogni mattina mi alzavo e correvo in cucina dalla nonna a fare colazione… A quei tempi se non mangiavi in quantità industriale le nonne si preoccupavano. Non gliene importava nulla a mia nonna se erano le 7 del mattino, ti dovevi ingozzare e basta!!! e non si discuteva….ripeteva sempre che “Addò ce sta a sustanza c’è a salut”… io ero nell’età in cui nascevano i primi amori ed ero complessata come non mai per il mio peso “leggermente” abbondante (a sentire mio fratello “er proprj chiatta). ogni qual volta lo facevo presente a tavola (sempre a mia nonna) lei mi rispondeva, come una cantilena, sempre allo stesso modo: A FEMMENA SECCA E COMM NU CAZZON SENZ SACC… e li ero costretta a buttar giù tutto “il pranzo di Natale” che aveva preparato.

Stefania Bertelli
Ci ho pensato a lungo, ma non conosco modi dire analoghi nel mio dialetto. Forse il coraggio non è la prerogativa della mia gente. La mediazione, l’accomodamento, la conciliazione sono probabilmente caratteri che riterrei più appropriati. Le frasi più comuni sono: “spetemo” (aspettiamo), “porta pasiensa”, “cossa ti vol che sia” (per sdrammatizzare).
Mio cognato, che frequenta lo stadio cittadino e segue le disastrose avventure della nostra sinistrata squadra di calcio, assicura che non c’è animosità tra i tifosi, e lì campeggiano sempre festosi cartelloni, con scritto “va ben il calcio, ma xe megio le ombre e i cicheti (bicchieri di vino accompagnati da stuzzichini)”.
Certo i litigi non mancano, ma azioni, che necessitano coraggio, non mi vengono in mente.
Il rischio, per chi non è di Venezia è di confondere il modo bonaccione per docilità, arrendevolezza…e qui c’è la fregatura, perché è latente la presa in giro, la manipolazione, il raggiro. Anche il famigerato saluto “servo vostro” può nascondere lo scherno.

Vincenzo Moretti

Scrivo a Iwano san. Per chiederle se è possibile incontrare il presidente Noyori. Intervistarlo sarebbe molto utile per il mio lavoro di ricerca. E in più potrebbe venirne fuori un bell’articolo.
Ieri sono stato tutto il giorno inquieto. È che questa cosa andava fatta prima. Adesso rischio di perdere un’opportunità importante. E di creare imbarazzo nei miei interlocutori nel caso dovessero opporre un rifiuto. Mi dico che è inutile piangere sul latte versato. E poi stanotte ho sognato mio padre. Procedo.
Dear Iwano san, Thank you very much for your kind attention. I am happy that for my visit to RIKEN it’s all right. In this moment, the materials that I can download from RIKEN’s site are sufficient, but I’ll write you if I’ll need another one. During my visit to RIKEN, I’ll write articles for Il Sole 24 ore, the most important italian economic newspaper, and I would like to interview the President Ryoji Noyori. Do you think is it possible? Thanks again.
I look forward to hearing from you. Yours sincerely.
Aveva ragione papà. Chi nun tene curàggio nun se cocca cu ’e fémmene belle. A fine mese ricevo la conferma della disponibilità di Noyori ad incontrarmi.

Deborah Capasso de Angelis
La mia storia è recentissima e non è una storia tenera come quella di Daniele.
Sono le 17.35 e mio figlio Joseph mi chiede di andare a fare un giretto con gli amici. Dopo pochi minuti sentiamo quelli che credevamo essere fuochi d’artificio. Erano colpi di una semiautomatica seguiti da sirene di ambulanza e  di vetture delle forze dell’ordine.
Mi precipito in terrazza e vedo un carabioniere stendere il nastro per delimitare l’area, capisco all’istante cosa sta succedendo, calzo le scarpe e, con mio marito, corriamo a recuperare Joseph. Sono stati attimi di panico e di estremo sollievo quando lui, ignaro di tutto, mi viene incontro e con sguardo interrogativo mi conforta e mi abbraccia dicendomi di non piangere.
Lo riportiamo a casa e, ormai passato lo spavento, prevale la criminologa che è in me.
Salgo a casa, metto il rossetto e con uno dei miei sorrisi migliori mi avvicino a uno dei poliziotti. Mi presento e riesco a convincerlo a farmi dare una sbirciatina alla scena del crimine, la pasticceria sotto casa mia.
Ho già saputo l’identità della vittima dalle persone interrogate sul posto, era  noto alle forze dell’ordine come un esponente di spicco della camorra locale.
Resto impassibile mentre la scientifica fa il suo lavoro e continuo a carpire informazioni dal poliziotto, la dinamica del fatto, il particolare che i colpi siano stati esplosi al volto sono un chiaro messaggio in codice sul movente del delitto.
Mi vengono fatte domande sull’accaduto ma, purtroppo, non ho informazioni da dare.
Torno a casa, riabbraccio forte mio figlio e rifletto sull’accaduto.
Qualche anno fa sarei stata sconvolta da episodi del genere, la mia preparazione da criminologa è sempre rimasta teorica e, a parte qualche fotografia di autopsie o di scene del crimine, non avevo mai visto niente del genere “dal vivo”. I parenti della vittima da poca distanza osservavano i miei movimenti.
Cosa sono adesso? Ho avuto solo coraggio o mi sono imprudentemente lasciata trasportare dalla mia sete di conoscenza?
Non lo so ancora e so anche che posso fare ben poco per fare in modo che queste cose non accadano.
Quello che so è che queste cose non mi piacciono e che voglio conoscerle ancora di più. Non posso fare granchè ma ho la fortuna di poterlo raccontare alle mie studentesse alla prossima lezione e posso raccontarlo a voi per condividere l’indignazione.

Daniele Riva
La mia bisnonna non l’ho conosciuta: era una donna nata a fine Ottocento e scomparsa sul principio degli Anni Sessanta, prima che io venissi al mondo. Ma diceva una frase che deve essere rimasta impressa a mia madre, visto che spesso me la ripete: “Il tempo non si vede, ma il lavoro sì”. Ovvero, per quanto ognuno di noi ci si applichi, il risultato del suo lavoro – oggetto fisico o intellettuale –  conserva in sé il sudore necessario per ottenerlo o la spremitura di meningi. Pochi giorni prima dello scorso Natale,   aiutavo mia madre a pulire i globi di cristallo dei lampadari del suo salotto, e ancora una volta è uscita quella frase: “Bagaj, ul temp al se véd mea, ma ul laurà sé”. Io, in piedi sulla scala con il secchio, la spugna, il liquido per i vetri, le ho chiesto qualcosa su questa bisnonna sconosciuta. Ebbene, quella frase era la richiesta di non badare al tempo necessario per svolgere un lavoro di ricamo: un impasto di onestà, di orgoglio e, perché no?, di gusto estetico: se qualcosa è fatto con cura, lo si noterà nell’oggetto finito. E naturalmente si sono poi spalancate le cateratte della memoria e il ritratto è stato ampliato:  ricordi di una stalla, di latte appena munto, di fette di salame spesse un dito, di polenta fumante… Poi è arrivato il progresso…

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