Il prototipo Pirelli
È bene dirlo subito: per quanto sia dura resistere, leggere il libro di Carlo Ghezzi e Marica Guiducci con l’ansia di correre all’ultimo capitolo, laddove si narra delle vicende che hanno portato Sergio Cofferati a Bologna, è un clamoroso errore.
“La strada del lavoro” è infatti molto di più della testimonianza in presa diretta, della pur preziosa ricostruzione di passaggi significativi della storia repubblicana da parte di “una voce di dentro”. È prima di tutto il racconto di un modo di vivere il sindacato e la politica. Il modo di chi sa pensare e decidere con la propria testa. Di chi vive l’utopia come progettualità sociale, come esito di processi nei quali convivono idee e concretezza, passioni e realismo. Di chi anche nelle fasi più difficili sa indicare una prospettiva, non si abbandona al pessimismo e alla sfiducia. Di chi non si riconosce nella politica tutta schiacciata sulla figura del leader, insofferente verso la fatica e le regole della partecipazione, perennemente tesa a semplificare, sostanzialmente antidemocratica. Di chi sa che bisogna tenere assieme le lotte di ogni giorno per migliorare le condizioni di vita e di lavoro e quelle per la difesa della democrazia, contro il terrorismo, le strategie economicamente neoliberiste e antisolidaristiche sul piano sociale.
Riformismo e radicalità: è su queste basi che viene costruito quel “prototipo Pirelli” che non si sarebbe affermato senza gruppi dirigenti autorevoli, con una diffusa capacità di confrontarsi con i lavoratori, di interpretare le loro esigenze, di ricercare soluzioni condivise anche quando sanno che sono dolorose.
Su “La strada del lavoro” si incontrano insomma tante cose.
Il valore del lavoro, senza il quale, non manca di sottolinearlo Paul Ginsborg nella sua bella prefazione, il “ciascuno è indebolito nella sua soggettività e privato dell’appartenenza alla comunità”. I diritti e i doveri della cittadinanza. La giustizia come prima virtù della società. L’idea di un’eguaglianza non solo formale ma anche sostanziale. L’idea di una politica fatta di partecipazione, di cui non è sufficiente ricercare il fine o lo scopo, a cui occorre dare un senso, che per questo non può non costituire la preoccupazione di ogni uomo libero.
Sta qui la forza del libro. Nella sua capacità di trasmettere tutto questo attraverso le storie che racconta. Quando a fare da protagonisti sono Carlo Gerli o Giuseppe Fenzio così come quando sono Bruno Trentin o Luciano Lama. Senza retorica e senza ideologismi. Con una tensione politica che traspare da ogni pagina, da piazza Fontana alle vicende del Corriere della Sera, dagli autoconvocati a tangentopoli, dal terrorismo che ritorna all’elefante CGIL che fa da diga e si ritrova solo.
Un racconto insomma tutto da leggere. Con un’assenza e un sospetto.
L’assenza è quella del Sud d’Italia e in larga parte si spiega con la le radici e storia, privata e pubblica, del protagonista. In larga parte però non vuol dire del tutto e forse sarebbe utile domandarsi perché: i) in quanto questione generale, da tempo quella meridionale è “una questione che non c’è più” anche nel sindacato; ii) il movimento sindacale meridionale incontra crescenti difficoltà a svolgere un ruolo e una funzione nazionale.
Il sospetto, del quale lo stesso Ginsborg si fa interprete, è che l’affetto che lega Ghezzi e Cofferati abbia indotto una sorta di autocensura intorno alle ragioni che hanno portato l’ex leader della CGIL ad “abbandonare il campo”.
Vero? Falso? Possibile. Ma forse per comprendere cosa è successo occorre scegliere un punto di vista meno usuale, guardare sì al Cofferati mosso “più dagli eventi che da un intimo convincimento” come al Cofferati “vero”, ma in un’accezione diversa da quella che sembra suggerire Ginsborg.
Proprio la capacità di cogliere il potenziale insito nella situazione, di rifiutare i modelli, di puntare sui fattori portanti, di comprendere gli eventi, di puntare sul rinnovamento a venire della situazione, è il filo rosso che tiene assieme il percorso sindacale e politico di Cofferati, nei lunghi anni nei quali sembrava condannato a rimanere il numero due del sindacato dei chimici così come nelle straordinarie iniziative per la difesa dell’articolo 18.
In questo senso Cofferati è davvero “cinese”. Per il suo modo di intendere l’efficacia dell’azione sindacale e politica. Per la “naturale” propensione a ritenere che nei momenti di difficoltà, quando gli eventi non sono propizi, ci si debba “ritirare” e, “non agendo”, così facendo, aspettare che ogni cosa sia compiuta. Per la innata convinzione che la scelta di stare in campo ad ogni costo non è mai destinata, “di per sé”, a produrre gli effetti desiderati.
Facciamo un esempio?
L’anno era il 1995, e chi scrive aveva di fronte, nella stanza al quarto piano di Corso d’Italia, proprio Cofferati e Ghezzi. Ricordo che opposi un orgoglioso, coraggioso, coerente “no” alle diverse soluzioni che mi venivano prospettate per risolvere la questione politica che avevo aperto. E che con una collera che mai più avrebbe avuto nei miei confronti Cofferati mi congedò sottolineando che, a prescindere dalle ragioni e dai torti, la mia scelta avrebbe prodotto più danni della peggiore delle proposte che lui e Ghezzi mi avevano fatto.
Mi costa ancora fatica ammetterlo, ma la profezia di Cofferati si è avverata. Naturalmente, le sue scelte del tempo non sono state ininfluenti nel determinare tale esito, così come probabilmente non lo sono state, per tornare al punto, quelle di D’Alema e Bertinotti nel determinare il suo approdo a Bologna. Ma nella strategia cinese ogni movimento contribuisce al divenire complessivo. E forzare gli eventi è sempre la peggiore delle opzioni possibili.
Carlo Ghezzi e Marica Guiducci
La strada del lavoro
Prefazione di Paul Ginsborg
Baldini Castoldi Dalai Editore
Pagg. 300
Euro 17.00