Informare vuol dire
Fondazione Feltrinelli
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Austro&Aquilone
Palazzo Serra di Cassano, Anni 1995 – 1996
Informare Vuol Dire è ciclo di conferenze promosso dalla Fondazione Feltrinelli, dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e da AustroeAquilone.
Speaker
Salvatore Veca, Luca De Biase, Hubert Fexter, Luigi Frey
Alessandro Vezzosi, Roberto Marchesini, Salvatore Casillo
Salvatore Veca – Etica
La stanza di Proust
La luce inconfondibile di questa lampada, e questa sala, mi riportano all’ottobre del novantuno, quando sono stato qui in occasione di un ciclo di seminari. Già in quella occasione abbozzai alcune delle idee che oggi vi vorrei proporre. Sono quindi delle idee un pò “vecchiotte”, che spero abbiano però il fascino delle cose che durano.
Mi soffermerò in sostanza su due questioni e, se avrò tempo, su una terza.
La prima ha a che vedere col tentativo di capire quale è la natura del disagio che possiamo provare quando ci troviamo di fronte a un mondo in cui molte cose cambiano assai velocemente. E’ un tipo di circostanze che riguarda il rapporto tra incertezza e risposte all’incertezza come risposte etiche. Proporrò quindi questioni relative a cambiamenti nell’ambito delle tecnologie o nell’ambito dell’impresa scientifica e tecnologica, che riguardino i modi di comunicare e il rapporto tra questioni di etica della comunicazione e questioni di bioetica sullo sfondo di cambiamenti, di alterazioni, di quanto per noi è abituale.
La seconda si può sintetizzare come il tentativo di comprendere la natura di quella che io chiamo la sofferenza socialmente evitabile, generata dal fatto che i nostri modi di vivere assieme, le istituzioni entro cui viviamo assieme, le pratiche sociali entro cui siamo inseriti sullo sfondo di quei cambiamenti, sono per noi un disvalore e quindi un antivalore, piuttosto che qualcosa che possiamo dire che per noi vale.
In sostanza credo che sarebbe per noi interessante, se ci poniamo il problema di un’etica sullo sfondo dei cambiamenti, piuttosto che inseguire una definizione di bene, partire da ciò che per noi sicuramente è male, e cercare di scostarci da esso. E’ questa misteriosa faccenda che io chiamo il principio della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile come principio guida di un’etica sullo sfondo dei cambiamenti. Ed è un principio che implica necessariamente un chiarimento della natura della sofferenza socialmente evitabile.
La terza questione, che spero di avere il tempo di discutere, si può definire come un tentativo di applicare l’analisi sviluppata nel secondo punto ad un termine che personalmente continuo a ritenere importante: progresso. Credo infatti che si debba poter pensare che cosa mai possa voler dire, a pochi anni dalla fine del secolo breve, che qualcosa sia progressista e qualcosa non lo sia.
Veniamo dunque al primo punto: la natura del disagio. Credo si possa dire che viviamo ordinariamente in un paesaggio che è caratterizzato da una partizione provvisoria fra quanto è certo, un ammontare di credenze certe, e un campo in cui possiamo mettere le incertezze. Questo è quanto caratterizza la vita ordinaria di ciascuno di noi nei rapporti coi propri colleghi, i propri figli, i propri progetti, le proprie aspirazioni. Ed in una siffatta situazione è evidente che il confine fra il capitale di certezze di cui disponiamo per orientarci nel mondo e metterci alla prova con gli altri, e l’incertezza che increspa, che può svalutare questo determinato capitale è esso stesso provvisorio.
Pensate ad esempio ad una persona che si ritrova d’improvviso con le proprie conoscenze tecnologiche completamente fuori mercato e che vede dunque totalmente svalutato il proprio patrimonio di certezze; o pensate a colui che scopre che sta vivendo l’esperienza dell’amore proustiano, con tutto il bagaglio di incertezza che questo comporta.
Sono convinto che si debba guardare sempre con attenzione alla partizione provvisoria tra certezza e incertezza, al non sapere più precisamente che cosa sia bene e male, che cosa sia giusto e ingiusto, o almeno non saperlo allo stesso modo di quando le partizioni di certezze ed incertezza erano stabili, per rendere conto del disagio etico. Del resto, perché si parla tanto di etica? Perché ce ne è poca. Ogni due giorni sui giornali c’è chi sottolinea che manca l’etica, oppure che “qui è un problema di etica” e questi sono gli indicatori del fatto che siamo molto incerti, che le teorie e le pratiche che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana sono incerte . Questa è la mia tesi di base.
Cosa fanno, tenendo conto di questa partizione tra certezza e incertezza instabile e provvisoria, quelle che noi convenzionalmente chiamiamo innovazioni tecnologiche? Si può dire che le innovazioni tecnologiche riarredano in maniera inaspettata, quelle che io chiamo, come fossero degli appartamenti, le residenze a cui siamo abituati. E quando ciò ha luogo ciascuno tende a ridurre queste incertezze apprestando teorie che mirano alla condivisione con gli altri. Non mi riferisco a cose solenni, ma a quanto normalmente facciamo nelle esperienze ordinarie della vita quotidiana. E’ in questo modo che rispondiamo alla minaccia della sorte e della solitudine involontaria. Se si svaluta il capitale di certezze vuol dire che io non so più bene qual è la compagnia dei miei. Se rispondo all’incertezza mirando a costruire una teoria che generi condivisione, vuol dire che io cerco di ricostituire una compagnia dei miei o dei nostri, non importa se con un confine molto ampio o più ristretto, e che questo è un bene per me, in quanto l’alternativa sarebbe la condanna alla solitudine, quando naturalmente la solitudine sia involontaria.
Tutte quelle circostanze in cui noi proviamo l’esperienza di ciò che io chiamo “l’inaspettato”, o se volete, con un po’ di civetteria, del “perturbante”, di queste residenze riarredate da altri, le chiamo circostanze del disagio di un etica o, con una battuta, le circostanze delle stanze di albergo di Proust.
Proust andava spesso in albergo, per scopi sublimi e loschi, e quando entrava in una stanza di albergo a volte la sentiva nemica. Egli sentiva che le stanze gli parlavano e se gli parlavano male provava una sofferenza terribile. La mia residenza è una residenza in cui io sono in equilibrio con me stesso e sono in equilibrio cogli altri; se c’è squilibrio la residenza è come straniera. Credo che questa storiella sulla stanza d’albergo di Proust possa gettare luce sugli effetti della trasformazione dei modi in cui siamo abituati a comunicare con altri, a vivere con altri e sul disagio dell’etica alla fine del secolo breve in cui tante cose stanno cambiando. E che questo sia alla fine più interessante che consolarsi, come fanno molti filosofi, con le vecchie storielle sul destino della scienza e della tecnica.
Una delle risposte tipiche a questi sfondi di alterazione, di increspatura della distribuzione certezza – incertezza è una risposta canonica, elaborata da filosofi anche eminenti, ed è la storia che la scienza è cattiva, che la tecnica è il destino dell’Occidente, che bisogna andare oltre l’Occidente, dietro l’Occidente, nel nulla. Personalmente credo che questa sia una risposta un po’ caricaturale. Noi sappiamo, come si usa dire, che l’impresa scientifica avanza e forza i limiti giorno dopo giorno; sappiamo che anche la faccenda del confine tra scienza e tecnologia, tra teoria e applicazione è nella maggior parte dei casi intricata, e comunque sempre più intricata di quanto non sostenga la tesi in fondo consolante che un conto è la teoria ed un altro è come la si applica.
La gamma di quanto noi possiamo casualmente fare si ampia e si dilata con ritmo inesorabile soprattutto per quanti sono esclusi dalla cerchia di coloro che monopolizzano la verità su ciò che avviene al mondo. Quando ci poniamo dilemmi etici sullo sfondo di cambiamenti e innovazioni tecnologiche è perché ciò di cui possiamo essere casualmente responsabili aumenta, quindi l’ambito di scelta aumenta e ad esso ovviamente corrisponde l’aumento dell’ambito della responsabilità. Quante più cose possiamo fare, tanto più ci poniamo il problema se è giusto fare quello che possiamo fare.
Mi piace ricordare l’esempio delle discussioni in bioetica, perché mi sembra quello intuitivamente più forte. Se possiamo fare sì che nascere possa voler dire nascere da fecondazione eterologa o da fecondazione omologa, se possiamo controllare i processi del morire, allora le questioni di entrata nella vita e di uscita dalla vita sono questioni su cui le nostre possibilità causali, cioè ciò di cui possiamo essere causalmente responsabili sono più numerose di quanto non fossero trenta anni fa o venti anni fa.
Cambia il che cosa voglia dire nascere o far nascere e il che cosa voglia dire morire. Sono piuttosto bizzarri i modi in cui uno può dire che è figlio di qualcuno, e il modo in cui si può dire che un pezzo di sé o il pezzo di un altro è espiantato. Sono cose un po’ strane, cose cui semplicemente noi non siamo abituati. Se mia nonna, donna straordinaria illuminata, aperta, avesse sentito le diavolerie dei siti internet, chissà cosa avrebbe pensato! Contemporaneamente non si scrivono più lettere d’amore e mia nonna era abituata alle lettere d’amore.
Questo mondo di fax, per non parlare dell’email, è un mondo in cui i pronipoti dei grandi competenti monopolisti della competenza archivistica saranno disoccupati, (faranno altre cose naturalmente), ma il problema vero è che siamo di fronte ad un aumento delle capacità di generare effetti su cose, su stati del mondo e su vite di persone e quanto sembrava sottratto all’ambito della scelta entra nell’ambito di ciò che noi possiamo scegliere di fare o non fare. E questo genera un problema di responsabilità.
Nessuno si mette in testa di giustificare eticamente la legge di gravità : solo dei fisici pazzi, che poi sono le persone più straordinarie, quelle più vicine ai poeti e ai musicisti, potrebbero farlo. Perché? Banalmente perché noi non scegliamo, non è in genere di nostra competenza che la legge di gravità sia la legge di gravità o che la costante di Plank sia la costante di Plank. Tutto ciò che è fuori del dominio di scelta non implica l’onere della giustificazione. Ma ciò che è nel dominio di scelta implica l’onere della giustificazione. Far nascere in un modo piuttosto che in un altro, e comunicare in un modo piuttosto che in un altro e lavorare in un modo piuttosto che in un altro sono tre tipi di variazione e di trasformazione che fanno parte di ciò che non viene dal cielo ma dipende da scelte nostre o di altri e quindi genera l’onere della giustificazione.
Questo è il punto che mi interessa sottolineare. Se lasciamo stare i luoghi comuni sul destino dell’occidente, sulla scienza e la tecnica cattive, oppure della scienza buona e della tecnica cattiva, e prendiamo sul serio la responsabilità che abbiamo, troveremo, di fronte ai cambiamenti, all’aumentare degli ambiti di scelta, delle cose che possiamo fare, degli effetti che questi possono avere su vite presenti e su vite future, lo sfondo dell’incertezza cui dobbiamo rispondere per ridurla condividendo con altri le risposte giuste su ciò che dobbiamo fare e su come dobbiamo vivere. Questo è il mio punto di vista per quanto riguarda la questione della natura e del disagio in un mondo che cambia.
Vorrei ora tentare di gettare luce sull’idea di quale sia la natura del male, quando c’è, la natura di ciò che correliamo all’ingiustizia. Qualsiasi teoria della giustizia parte dal senso d’ingiustizia. Le teorie della giustizia sono le risposte al senso dell’oltraggio morale, o sono le risposte all’incertezza su ciò che collettivamente è giusto, e, quindi, cercano di costruire comunità di condivisione cogli altri, di criteri che ci orientino nel valutare, nel modellare i nostri modi politicamente, istituzionalmente o socialmente.
Qual è la natura della sofferenza socialmente generata? La maggior parte delle sofferenze sono sofferenze solo in parte socialmente generate, ma a volte ci sono delle sofferenze di questo tipo che, in quanto tali, sono socialmente evitabili, perché rientrano nell’ambito della scelta. Se vi è sofferenza e se l’esservi sofferenza deriva dall’essere le istituzioni o le pratiche sociali in un certo modo piuttosto che in un altro, dovremmo porci la questione di quali istituzioni, di quali pratiche sociali siano giustificate, in quanto riducono, per quanto è possibile, l’ammontare di sofferenza socialmente evitabile. Pratiche pubbliche che non generano mali pubblici ma cercano di minimizzare i costi (se uno non ha una visione così euforica da dire di massimizzare i benefici).
Ancora a proposito della sofferenza sono personalmente convinto che, come dice un filosofo brillante e ironico, spesso incoerente ma certo suggestivo come Richard Rorty, noi non condividiamo con gli altri esseri umani la capacità di provare dolore, dato che questa la condividiamo con tutti gli esseri senzienti. Ad esempio il mio cane Scott può provare dolore (sappiamo tutti che, così come noi, i nostri compagni animali provano dolore). Quello che è tipico di tipi come noi, cioè di animali umani, ciò che fa la differenza, è il fatto che siamo animali linguistici.
Come sapete abbiamo sempre cercato di rispondere alla domanda “chi siamo?” Animali razionali, res cogitantes, spettri nella macchina, ghiandole pineali. La mia proposta è quella di prendere sul serio il fatto che siamo animali linguistici, e che la natura del linguaggio è una nozione importante per rendere conto della natura della sofferenza socialmente evitabile. Vediamo perché, e perché è legato ad alcuni accenni che ho fatto prima, cercando di gettare luce sulla natura del disagio etico in un mondo che cambia.
Il linguaggio per noi non è un optional. E’ difficile immaginarci come animali non linguistici, cioè gli stessi senza aver comprato (che poi costa moltissimo nei listini d’acquisto) il linguaggio: non potremmo pensarci come esseri pensanti, se tirassimo via il linguaggio. “Cogito ergo sum” è una versione troppo breve, meglio si dovrebbe dire “loquor et ago et patior, ergo sum”. Ma qual è la caratteristica saliente del linguaggio? Che il linguaggio è un arte sociale, un’istituzione sociale. Non c’è bisogno di Wittgenstein, di Quine o di Vico: é noto che il linguaggio è un arte sociale, e il linguaggio implica l’idea di una comunità di parlanti. A questo proposito c’è un argomento standard molto affascinante in filosofia sulla possibilità del solipsismo linguistico. Voi non potete immaginare un linguaggio e pensare che ci sia un solo parlante quel linguaggio, perché lui non saprebbe che linguaggio parla e neanche gli altri potrebbero saperlo (c’è dunque un interessante argomento sul linguaggio privato).
Il linguaggio è pubblico. Pubblico nel senso che implica la condivisione. E la comunità dei parlanti suggerisce l’idea che vi debba essere una qualche reciprocità o mutualità di riconoscimento tra i partners, in questo caso tra i parlanti che condividono lo stesso linguaggio, o la stessa teoria dell’interpretazione del linguaggio. E tutto questo ha a che vedere con una prima elementare idea di dignità dei partners cooperanti nell’impresa collettiva del linguaggio. E la dignità ha a sua volta a che vedere con l’inclusione nella comunità linguistica e in questo senso con la rete stabile dei riconoscimenti mutui, perché esclusione e mancato riconoscimento, o deficit di riconoscimento, generano quella particolare specie di sofferenza, che a me sembra essere la sofferenza sociale, politica o civile par excellence (nel senso che è propria di chi è agente con altri in comunità, a confini variabili, nel tempo e nello spazio) che potremmo definire come esperienza della umiliazione o della degradazione. Io credo che l’umiliazione, per animali linguistici, sia l’erosione dell’autonomia delle persone, e che quest’ultima induca il collasso del rispetto di sé e la sconnessione da valori condivisi da comunità quali che siano.
Se considerata nella sua forma simbolica, l’umiliazione è scomunica, nel senso di ex comunitate, fuori dalla comunità. Essa diventa invisibilità nella comunità o esclusione dalla comunità, e si potrebbe anche sostenere che quanto non viene riconosciuto, in questo caso, è esattamente la pari dignità di te o di me, come partner reale o virtuale di una conversazione o più precisamente di una catena connessa di transazione linguistica e non linguistica. E’ come dire che “il club ci esclude ” o ” il ghetto ci esclude”. Sapendo che ci sono vari ghetti e vari club. Un disoccupato ad esempio ha una prospettiva strutturale permanente di esiliato in patria. Questa è umiliazione. Ma ci sono casi meno solenni e meno tragici, come ad esempio, a proposito degli amori proustiani, le lettere d’amore, le conversazione d’amore con una donna o un uomo che amate in una lingua che non padroneggiate. O ancora pensate al disagio linguistico quando non controllate molto bene una lingua e siete in una comunità o siete a cena e avete finito di fare la relazione al convegno in cui tutti parlano più o meno il falso inglese.
Mi ricordo che questa idea dell’esclusione dalla comunità linguistica mi venne in realtà da un’immagine primitiva, come si diceva un tempo nella psicoanalisi, quando nell’università c’erano forme di deferenza molto più istituzionalizzate di quelle di oggi. C’era un bravissimo professore di storia della filosofia dell’università di Milano, dove io lavoravo allora, che parlava con un altro ordinario mentre io ero assistente. A quei tempi tra ordinario ed assistente c’era visibilmente un problema di caste, cosicchè loro riuscivano a parlarsi mentre io, nonostante fossi in mezzo, ero come invisibile. E lo ero di certo rispetto a chi era nella comunità dei pari. Allora cosa facevo? Parlavo con l’altro assistente, con un mio pari, perché questa era la mia risorsa per non essere esiliato, per non essere solo. La mia tesi è che tutti i meccanismi che generano questa sorta di condanna alla solitudine involontaria sono meccanismi e pratiche variegate che umiliano gli esseri umani.
Faccio solo un accenno al terzo punto. Mi domando se abbia senso demarcare una prospettiva, un criterio, un modo per orientarsi nelle scelte individuali e collettive che implichi il ricorso ad una nozione di cosa è progresso. In altri termini: ha senso dire che una cosa è meglio di un’altra?
Dal punto di vista storico l’idea di progresso, la fiducia, la credenza nell’idea del progresso come un processo di perfezionamento che va da un terminus a quo ad un terminus ad quem, è una parte molto breve della vicenda europea: esso è in realtà l’eccezione di circa un secolo di élite intellettuali britanniche e francesi, in parte tedesche, in parte italiane.
In verità le difficoltà che si possono avere nel maneggiare questo termine, che è in discredito, dipendono da un fatto buffissimo, da una specie di paradosso: quanto più una società ha generato opportunità e, per quanto è possibile, tutela diritti, e quindi, in un certo senso, quanto più è progredita, tanto più si aprirà l’inchiesta sulla complicazione della nozione di progresso. Insomma il fatto che ci sia incertezza su ciò che voglia dire progressivo, progresso, è indice di progresso.
Ma qual è la natura dell’incertezza a proposito del progresso, se non hanno ragione coloro, che io credo non abbiano ragione, che dicono che il progresso è da buttare via? A mio avviso essa deriva dal fatto che noi sappiamo che la nozione di progresso, un’idea di progresso, si deve pensare su una varietà di dimensioni e non su una sola. Faccio un esempio: è naturale che l’ultimo modello di ennesima generazione possa essere definito come un progresso rispetto al precedente. Anche un filosofo che pensa che il destino dell’occidente sia nullo se ha il figlio con la febbre sarà contento che il medico gli dica: abbiamo fatto progressi. Capiamo cosa vuole dire progresso nella capacità di rendere per esempio meno maledettamente inquinate le residenze in cui viviamo. E se le politiche per il trattamento dei rifiuti implicano che tecnicamente possiamo fare cose che prima non si potevano fare, diremo che bisognerebbe fare quella roba lì, perché quella roba lì è meglio di quella precedente, dà più benefici e meno costi. Così come diremo che un teorema che mostri che il teorema di Godel si può integrare sarebbe straordinario, sarebbe un vero progresso per la scienza. Chi potrebbe metterlo in questione? E comunque anche se lo mette in questione addotta sempre un criterio per cui qualcosa è meglio di qualcos’altro, e in questo costituisce un progresso rispetto allo stadio precedente. Qual’è allora il problema? Semplicemente questo: se le dimensioni a cui attribuire punteggi in termine di progresso sono più d’una, può darsi che vi sia conflitto tra dimensioni e che per questo non sappiamo che punteggio dare a ciascuna dimensione.
Un’idea progredita di progresso è un’idea in cui si sa che con quel termine si deve disporre di un’informazione plurale su più dimensioni e quindi si prende sul serio l’inevitabile conflitto che può sorgere fra i punteggi su una dimensione, i costi e benefici su una dimensione, i punteggi, i costi e i benefici su altre.
Qualcuno ha sostenuto che l’idea di progresso in fondo possa essere concettualizzata alla fine di questo secolo nei termini di una qualche idea di crescita, di ascrizione, di tutela, e soprattutto di diritti per uomini e donne qua e là per il mondo. La mia domanda è: perché i diritti sono importanti? E perché è così terribilmente importante, quando siano giustificati e quando siano meritevoli di tutela, l’interesse che le persone tutelate siano protette? E’ importante perché i diritti sono le risorse per minimizzare la sofferenza sociale, sono le briscole con cui stoppiamo le manovre di esclusione, di umiliazione, di degradazione.
Allora io credo che, in coerenza con queste poche battute sul terzo punto, potremmo accettare l’idea che dovremmo essere intransigenti con ciò che è male, non dovremmo praticare la tolleranza verso ciò che è male, nel senso che ho detto, e dovremmo nello stesso modo essere libertari verso ciò che variamente può essere per noi bene.
Luca De Biase – Media
Il campanile, la fontana e il portalettere
Per un giornalista parlare di media nella società dell’informazione è un po’ come muoversi in un labirinto di specchi.
Nella società dell’informazione le dinamiche della società e quelle dell’informazione tendono infatti a convergere e a confondersi così come quelle dei media con quelle dell’informazione. A ciò si aggiunge il “mestiere” di giornalista, un ruolo dentro i media, che a me fa pensare che ogni cosa che tocco rimanda a mille altre. E’ come essere di fronte ad una serie di pagine web, piene di link, ed essere consapevoli che il discorso può prendere mille strade diverse.
Ma poichè una bisogna pure imboccarla io lo faccio dicendo che i media presentano aspetti di forte continuità ed altri di forte discontinuità.
La grandissima continuità sta nelle funzioni. Se pensiamo all’evoluzione dei media nel contesto della società agricola, nel contesto della società industriale ed in quello in cui viviamo ci rendiamo conto che in fondo esse possono essere richiamate dai tre media fondamentali della società agricola: il campanile, la fontana e il portalettere.
Il campanile è il broadcasting, una centrale che possiede l’informazione e l’invia a tutti in maniera estremamente fruibile, molto facile da riconoscere, e dando le notizie utili in tempo reale: sta per cominciare la messa, stanno per arrivare i saraceni e altre cose di questo tipo. La fontana è il medium dei piccoli gruppi: le ragazze si trovano alla fontana a prendere l’acqua e cominciano a darsi le notizie sul loro gruppo. Esempi di luoghi e di piccoli gruppi così se ne possono fare tanti, la fontana è solo uno di essi. Il portalettere invece fa più o meno, nella società agricola, quello che fa adesso, magari un po’ più efficientemente.
Le tre funzioni sono dunque queste. Broadcasting: da una centrale a tutti, in modo semplice. Fontana: luogo di comunicazione all’interno di gruppi chiusi. Portalettere: comunicazione efficiente a due o a più persone, ma essenzialmente legata alla comunicazione tra poche persone.
Il campanile, che poi diventa la radio, e poi ancora la televisione, presenta una fortissima barriera all’entrata. Sono molto pochi coloro che possono organizzare un campanile così come fondamentalmente sono pochissimi coloro che riescono a organizzare proprie reti televisive effettivamente competitive sul mercato. La fontana invece non è dotata di particolari barriere all’entrata. La barriera è piuttosto rappresentata dalla dinamica culturale che definisce il gruppo che si ritrova alla fontana, alla macchinetta del caffè, sul posto di lavoro, in piazza. Il portalettere ha una funzione estremamente semplice, leggibile, posto che si sappia scrivere e leggere. Qui la barriera, la difficoltà, il fatto organizzativo che determina qualche cosa di importante è l’organizzazione dei portalettere, che poi diventa l’organizzazione del telefono, del fax, e via dicendo.
L’organizzazione che costruisce l’infrastruttura è importante dal punto di vista dei media. Quando ad esempio essa sceglie di fare una strada che conduce da un paese a un altro, lasciandone fuori un terzo, dà automaticamente importanza ai messaggi che passano tra i paesi collegati, mentre riduce l’importanza di quelli che possono nascere ed essere ricevuti nel terzo paese non collegato. Le funzioni sono dunque ancora quelle. Ciò che effettivamente cambia molto sono le tecnologie e i contesti sociali.
Si è soliti ricordare che Silvio Berlusconi, all’inizio degli anni Ottanta, disse una frase del tipo: “oggi non è tanto importante ricercare la ricchezza o il potere, ma la popolarità, perché da essa discendono la ricchezza e il potere”. Non so se lo abbia detto o no, o se semplicemente gli è stata attribuita, però è sicuramente una frase che fa pensare.
Proviamo adesso a domandarci cos’è per noi questa società dell’informazione. Ci sono due elementi definitori molto importanti: la materia prima fondamentale nell’economia della società dell’informazione è l’informazione e quindi tutte le strutture che la trattano, la producono e la trasportano; nella società dell’informazione c’è una certa coincidenza tra le strutture del potere e le strutture del potere dell’informazione. Posto che adesso stiamo vivendo nella società dell’informazione e che si possa immaginare che entro cinque anni saremo nella società dell’informazione digitale, ci potremmo chiedere se questo passaggio può determinare dei cambiamenti nella struttura di potere, e quindi nelle scelte, e magari nelle responsabilità.
Come dice Salvatore Veca, potremmo chiederci se per la nostra società tale passaggio possa considerarsi un progresso. Per dire cosa può significare il passaggio dalla società della comunicazione alla società della comunicazione digitale, dobbiamo vedere in che cosa cambiano i media passando dalla forma analogica a quella digitale. Forse è utile a questo punto sottolineare che ci sono sempre tre dimensioni nei media. C’è la dimensione del trasporto dell’informazione, la dimensione degli strumenti tecnici di produzione e di ricezione e la dimensione della creazione dei contenuti e dalla capacità di comprensione dei contenuti.
Cosa sta avvenendo? Nell’ambito degli strumenti tecnici, c’è stata negli anni ottanta una evoluzione dirompente. I computers hanno preso il possesso fondamentale della produzione e del trattamento dell’informazione. Tutta l’informazione, dai giornali che abbiamo in mano alla televisione e a tutti gli altri media tradizionali, è comunque prodotta dai computers, i quali fanno in modo che sia fondamentalmente lo stesso genere di oggetto una fotografia, una parola, un immagine in movimento, un suono. Sono sempre bit, trattati da programmi diversi, che fanno in modo che si esprimano, siano visibili e recepibili sotto le diverse forme a cui siamo abituati.
Gli strumenti tecnici, e in particolare i computers, evolvono a una velocità molto grande. La capacità di elaborazione dei computers aumenta infatti da decenni del doppio ogni diciotto mesi, e tutto questo non accenna a rallentare. Nelle lunghe interviste che ho fatto al presidente dell’Intel, la società che produce l’ottanta per cento dei microprocessori dei computers, e ad altri esperti, emerge che nella peggiore delle ipotesi questo rallentamento arriverà tra sei anni. Dati i meccanismi di produzione attuale, avremo per sei anni questo genere di evoluzione e quindi il computer che sta dentro il meccanismo di produzione dell’informazione, di trattamento, di elaborazione crescerà a questa velocità ancora per almeno sei anni.
Già oggi un settimanale come Panorama è prodotto tutto su computers, dei piccoli Macintosh. Tutto il materiale che abbiamo, foto o parole che siano, è dentro i nostri computers in rete, e solo all’ultimo momento diventa atomi, come dice Negroponte, carta. Se lo volesse la Mondadori, Panorama sarebbe ovviamente totalmente fruibile anche attraverso i computer.
Uno stesso processo è in atto nella televisione. Naturalmente tutti utilizzano la telecamera, che di solito è ancora analogica, però le riprese vengono successivamente scaricate su computers. Alla Fininvest hanno appena comprato tre PC da 120 milioni l’uno, ci mettono dentro tutte le immagini e i suoni e il mixaggio avviene esattamente come avviene la costruzione di un testo su un calcolatore, con taglia e incolla di tutti i pezzi di informazione. Da tutto questo possiamo trarre una prima conclusione: nella produzione l’era digitale è già una realtà.
La novità che ha favorito l’esplodere dell’attenzione attorno ai nuovi media digitali sta nel fatto che anche nel trasporto si è diffusa questa forte dinamica innovativa. Per dirla in breve nelle telecomunicazioni si è affermato il modo di produrre e di trattare le informazioni tipico dell’elettronica, con una dinamica dell’innovazione anche lì molto veloce. In questo momento la capacità di trasmissione delle telecomunicazioni è addirittura più veloce di quella dei computers. Cioè cresce e raddoppia in un tempo inferiore ai diciotto mesi. Questo di fatto ha creato una piattaforma nuova per l’informazione. (La piattaforma è l’insieme di quei meccanismi per la produzione, il trasporto e la ricezione dell’informazione tipo l’Internet o il satellite digitale).
Di internet parlo fra un attimo. Del satellite digitale parlo subito perché è ancora più facilmente definibile nel ragionamento che sto cercando di proporvi. Il satellite è stato lanciato il 19 novembre e si chiama Hot Bird II. Contiene una serie di aggeggi che si chiamano transponder e che rimanderanno sulla terra i segnali mandati da terra. Ogni pezzo del satellite viene affittato da organizzazioni che una volta erano editori, broadcaster di televisione e che adesso sono effettivamente un misto di telecomunicatori ed editori di broadcaster. In particolare Telepiù ha preso una grossa fetta di questi transponder, perché si propone di vendere questo nuovo genere di televisione che si chiamerà paper view.
Sono le nuove forme di fruizione della televisione per cui con un unico abbonamento si possono avere cinquanta e nell’arco di un anno e mezzo cento canali. Questa quantità di canali verrà ricevuta da una macchina che dovremo comprare, collegata a una antenna satellitare che ci metterà in condizione di ricevere e scegliere all’interno di cento canali. È interessante il fatto che siano cento e che siano cento perché sono digitali, perché se fossero analogici non sarebbe possibile tutta questa quantità di informazione. È interessante perché nella quantità di canali l’editore delle emissioni ha una occasione, quella di proporre contenuti per pubblici molto specialistici. Dato che ci sono tantissimi canali, la produzione che le tv satellitari digitali si propongono di fare è una produzione che, assieme ad un po’ di informazioni generali, si segmenta in piccole nicchie di interessi.
Internet ha più o meno le stesse caratteristiche. In particolare dal punto di vista dell’utente moltiplica la possibilità di scelta non per cento ma per milioni. Ci sono due milioni e mezzo di computer che contengono una quantità notevole di programmi, ai quali si può accedere attraverso Internet, che hanno una volontà commerciale, che vogliono cioè proporsi come aziende di produzione di contenuti mediatici; assieme a questi ci sono moltissimi altri computer collegati che hanno altre funzioni.
Quello che è interessante dell’Internet è che sulla stessa piattaforma sono presenti tutte e tre le funzioni di cui parlavamo prima: il campanile, la fontana e il porta lettere. Il broadcasting viene fatto attraverso dei programmi che inviano lo stesso genere di informazioni a tutti gli abbonati. La fontana è rappresentata da questi luoghi che si chiamano news group dove uno accede perché ha un interesse particolare, è interessato a un argomento, appartiene a un gruppo etnico, a un gruppo linguistico in particolare. Il portalettere è proprio la posta elettronica, la cosa più importante di Internet, quella che viene usata più regolarmente dalla maggior parte dei suoi trenta milioni di abbonati.
In effetti sappiamo che in questo momento il numero di messaggi in posta elettronica negli Stati Uniti ha superato il numero dei messaggi di carta ed anche se non vuol dire niente dal punto di vista pratico rappresenta dal punto di vista simbolico una pietra miliare. Abbiamo dunque un’unica piattaforma digitale, quindi trasporto e trattamento delle informazioni, che fa tutte e tre le funzioni dei media di cui abbiamo parlato prima.
La tecnologia in questo caso che cosa determina? Determina la fusione di tutta la parte organizzativo produttiva dei media in un unico meccanismo e possiamo a questo punto scegliere che genere di funzione del medium vogliamo utilizzare in un determinato momento. Nella fase precedente invece la televisione era solo broadcasting, il portalettere solo un portalettere e il telefono fondamentalmente uno strumento per parlare fra due persone. La fontana o la macchinetta del caffè non è che avessero degli eredi particolarmente interessanti ed anzi si può dire che nella società dell’informazione predigitale quella più penalizzata era proprio la funzione del luogo di aggregazione, dei gruppi di interesse più piccoli.
Sul piano degli sviluppi sociali la cosa più rilevante da dire è che sia nel caso della televisione digitale, con i suoi cento canali, le nicchie, i pubblici specializzati, sia, ancor più evidentemente, con Internet, abbiamo dei mezzi che tecnologicamente consentono il ritorno in auge di una delle funzioni dei media che venivano molto penalizzate nel precedente sistema e cioè quello del luogo d’incontro dei piccoli gruppi, delle nicchie di interesse, dei gruppi etnici, dei gruppi linguistici, dei gruppi di condivisione di qualche cosa che poi sono anche i luoghi dove si costruisce l’identità, dove ci si riconosce.
La seconda conclusione può essere quindi la seguente: sono aumentate le possibilità di scelta di chi vuole, attraverso i media, ritrovare una identità, intentendo in questo caso l’identità come il bisogno di avere un linguaggio comune con le persone che hanno interessi in comune.
Ovviamente tutto questo non produce solo effetti positivi. La tecnologia di fatto non determina niente da sola. La terza dimensione dei media, che poi è in fondo quella più importante, quella dei contenuti, non dipende dalla tecnologia. La tecnologia è solo una opportunità, e qui direi che c’è il punto chiave della vicenda. Possiamo stendere le fibre ottiche in parte d’Italia, se non c’è niente di interessante dentro la gente non le userà. Il punto è allora: come vengono prodotti i contenuti?
Nella “vecchia” società dell’informazione c’era una forte concentrazione della produzione dei contenuti per cui solo grandissimi editori, grandissimi broadcaster, controllavano la produzione della maggior parte delle cose. Se è vero che i nuovi media avranno uno sviluppo, le opportunità che danno le danno soprattutto ai piccoli, a quelli che nascono con un idea di contenuto da realizzare e con una probabilità di ottenerne un ricavo, economico, sociale o politico che sia.
Austro e Aquilone in questo senso è un esempio, piccolo ma significativo. E’ una rivista che ha una direzione a Milano, la redazione e soprattutto i grandi animatori dell’associazione a Napoli, collaboratori in tutta Italia. Soprattutto non ha una lira e quindi fondamentalmente non sarebbe stato possibile farla senza la posta elettronica che è un sistema di bassissimo costo che determina bassissime barriere all’entrata per la produzione per lo meno dei contenuti.
E questo è vero per moltissime altre iniziative, adesso non voglio farne un elenco, però nascono gruppi di giornalisti indipendenti, freelances che vogliono avere un rapporto diretto con i lettori senza la mediazione dei direttori e dei grandi editori e questo in Italia è il caso di Reporter On Line del quale tra l’altro faccio parte. Esistono singoli designer sconosciuti che hanno raggiunto una notorietà mondiale facendo vedere di che cosa sono capaci con i loro siti su Internet. Esistono tutta una serie di casi nei quali a partire dai contenuti piccoli innovatori sono riusciti a raggiungere risultati importanti.
Terza conclusione: la nuova tecnologia è essenzialmente un mondo di opportunità nuove soltanto per chi le sa cogliere. Qui si pone la decisiva questione dell’inclusione e dell’esclusione di cui parla Salvatore Veca. Ancora una volta direi che non c’è particolarmente niente di nuovo, nel senso che anche il portalettere fondamentalmente serviva solo a chi sapeva leggere e scrivere. I meccanismi di inclusione e di esclusione non dipendono a mio avviso dalla tecnologia.
La tecnologia ha due fortissime dinamiche innovative. La prima è quella del punto più avanzato dell’innovazione, che è comprensibile esclusivamente dalla parte più esoterica dell’Internet, in questo momento più o meno un milione di persone nel mondo. La stessa tecnologia però, per rendersi economicamente valida, tende a semplificarsi per aumentare il proprio mercato. Molto presto ci saranno televisioni che navigheranno su Internet col telecomando in modo molto simile a quello che facciamo con la televisione attuale ed assisteremo al crollo dei prezzi per quanto riguarda l’hardware e le macchine che servono per accedere a Internet. Ovviamente non avremo una esplosione delle persone che sono interessate a questo medium fino a quando i contenuti non saranno veramente popolari o caratterizzati da elementi di interesse generalizzato.
I meccanismi di esclusione ed inclusione riguarderanno dunque quelli che capiscono Internet o che comunque che ne capiscono gli sviluppi più avanzati e quelli che lo usano senza capirlo. Nella seconda fascia c’è ovviamente una maggiore difficoltà a cogliere l’opportunità creata dai nuovi media, però possiamo dire che un grosso editore ed un singolo sono molto più alla pari di quanto non fossero nel precedente scenario tecnologico. Nell’ambito degli inclusi c’è dunque un cambiamento di scenario abbastanza interessante da segnalare.
Un’altra forma di inclusione importante è appunto quella delle nicchie. E’ vero. La televisione è fruibile dal novantasette percento degli italiani senza nessuna competenza tecnologica e Internet in questo momento è fruibile da quattrocentomila persone con atteggiamenti tra l’altro tra loro molto diversi: in questo dato c’è già un significativo rapporto di inclusione e di esclusione. E’ altrettanto vero però che moltissime persone che non si riconoscevano nei contenuti della televisione generalista, che era tale perchè doveva essere tutta uguale per tutti, e quindi tendenzialmente distruggeva le nicchie di interessi diversi, trovano e ancor più troveranno in questo nuovo media un proprio spazio. Questa mi sembra una forma di inclusione molto importante in una società che tende ad essere multietnica, multilinguista o comunque più tollerante per le diversità.
L’ultima cosa che mi resta da dire è che per quanto, dal punto di vista dei contenuti, gli effetti siano abbastanza libertari, c’è un elemento di potere che rimane abbastanza intonso, senza interventi di pubblica opinione significativi, ed è quello del trasporto, dato che effettivamente a questo livello la scelta di chi fa le strutture di trasporto ha sempre più o meno lo stesso valore che aveva prima.
Se il telecomunicatore decide di portarci da un paese A ad un paese B e di escludere il paese C, il paese C è escluso, ed è difficile che si possa da solo rimettere in corsa. A questo problema tenta di rispondere indubbiamente una legislazione europea che va nella direzione della liberalizzazione e dell’aumento della concorrenza e quindi in un certo senso anche dello stimolo alle innovazioni per tutti i telecomunicatori. E bisogna riconoscere che per quanto riguarda l’Italia anche la Telecom si sta muovendo in questa direzione. Non c’è dubbio però che, saranno due, tre o cinque, i trasportatori dell’informazione saranno sempre pochi.
Da qui la quinta e ultima conclusione: c’è un problema di dominio pubblico sulle scelte significative per rendere possibile l’accesso diffuso di queste nuove tecnologie in maniera che i loro effetti principali possano essere fruibili dalla maggior parte delle persone. E’ il problema scuole, il problema servizi dei comuni, il problema dei luoghi pubblici che bisogna pensare di connettere anche se il mercato non li connetterebbe da solo.
Lo scopo? Non certo assistere. Ma aiutare la crescita di tutto il Paese.
Hubert Fexer – Formazione
Duale ci piace
In una grande città bavarese,una azienda automobilistica con circa 7000 dipendenti sta celebrando il decimo anniversario dall’inizio della produzione. Quando, dieci anni fa, questa azienda cominciò a cercare operai, non assunse disoccupati, ma operai specializzati provenienti dalle imprese artigianali già presenti nella zona. Le imprese di meccanici e di carrozzieri dei dintorni persero di conseguenza i loro migliori dipendenti e collaboratori, che si licenziavano per passare alla grande fabbrica che offriva un salario molto più alto e la possibilità di comprare una macchina a prezzi di favore. E ancora oggi circa il 90% dei suoi dipendenti hanno un’istruzione professionale completa. Due anni fa, questa fabbrica ha aperto una filiale negli Stati Uniti, ma la qualità dei prodotti che escono da quello stabilimento non è tra le migliori, nonostante che il 25% dei dipendenti sia composto da operai che vengono dalla Germania e trascorrono un paio di mesi negli Stai Uniti. Le automobili prodotte nella fabbrica americana, prima di essere messe sul mercato, vengono “ritoccate” nella sede della fabbrica in Germania, con costi aggiuntivi di diverse migliaia di marchi. Non che in America non si sappia lavorare bene – si lavora più a lungo e più a buon prezzo che da noi – ma manca una buona formazione professionale. E una buona formazione professionale è una premessa indispensabile per ottenere risultati di ottima qualità. Le stesse statistiche relative alla disoccupazione dimostrano quanto sia importante un’istruzione professionale ad alto livello.Per gli operai generici, senza addestramento professionale, è sempre più difficile trovare un’occupazione e più di 100 000 giovani ( tra Germania ovest e ex Germania est ) non sono riusciti a entrare nel mondo del lavoro nel 95. Nella maggior parte dei casi la disoccupazione ha colpito i ragazzi senza addestramento professionale.(Mi riferisco soprattutto alla situazione nella Germania ovest, nei Paesi della ex Germania democratica il problema della disoccupazione è più sentito anche tra coloro che hanno un’istruzione professionale). In Germania è riconosciuta ufficialmente l’istruzione professionale per 331 professioni. Ma quali sono le professioni che godono del maggior interesse tra i principianti che desiderano imparare un mestiere, a seconda del titolo di studio iniziale? Chi, dopo la maturità, non passa all’università, si orienta verso professioni nel campo dell’economia e del commercio e, in primo luogo, alla carriera in una banca. I giovani che hanno terminato la nostra “Realschule”, che dura due anni di più della scuola media italiana, vorrebbero diventare impiegati di concetto in uffici pubblici o privati e anche l’impiego in un laboratorio medico dentistico è molto ambito. Chi cerca un lavoro dopo la “Hauptschule”, che dura quanto la scuola dell’obbligo in Italia, si orienta verso mestieri nel campo dell’artigianato, soprattutto meccanici, imbianchini, muratori e parrucchieri. Circa 615 000 giovani sono apprendisti nell’artigianato, cioè il 39% di tutti gli apprendisti. La maggioranza dei giovani che si decidono per una qualificazione professionale viene istruita con il sistema duale, cioè con l’accoppiamento di un insegnamento pratico, impartito da un’azienda, con l’insegnamento teorico, dato dalla scuola professionale. L’azienda sostiene i costi per l’addestramento in ditta, mette a disposizione il personale che istruisce l’apprendista, paga la retribuzione mensile e le assicurazioni sociali. Inoltre, per i corsi di aggiornamento extra – aziendali, l’azienda paga la tariffa dei corsi e le spese extra, mentre lo stato o le regioni danno dei contributi e finanziano tutta la scuola professionale. L’apprendista deve frequentare la scuola professionale 1 o 2 giorni a settimana per tre anni o tre anni e mezzo. Qui vengono impartite lezioni relative a materie di cultura generale e, inoltre, quella parte di nozioni prevalentamente teoriche relative al suo ramo di competenza, dato che il giovane può impararle meglio qui che presso l’azienda. Le sue prestazioni vengono attestate in un diploma finale. La scuola professionale è anche la scuola d’obbligo di tutti i giovani che non hanno ancora compiuto i 18 anni d’età e che non frequentano nessun’altra scuola. Questo per l’istruzione scolastica. Per quanto riguarda il tirocinio nell’azienda, le norme dell’apprendistato vengono emanate dai ministri federali sulla base delle proposte avanzate dalle associazioni industriali e artigianali, dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dai sindacati competenti. Queste proposte fissano le materie d’insegnamento e d’esame. L’esame viene presediuto dai comitati degli organi di autoamministrazione dell’economia (Camera dell’Industria e del Commercio, Camera dell’Artigianato e simili). Nella Commissione d’esame sono presenti i rappresentanti dei datori di lavoro, dei lavoratori (normalmente proposti dai sindacati) e degli insegnanti delle scuole professionali. Dopo questo esame, l’apprendista diventa “Geselle”, entra cioè nel primo stadio di operaio specializzato. Dopo circa 5 anni di pratica, può sostenere l’esame di “maestro artigiano” e con questo titolo potrà fondare una sua propria impresa, esercitare una professione artigianale e anche addestrare, a sua volta, i nuovi apprendisti. Un’apprendista guadagna in media 1000 marchi al mese (un po’ meno nei Paesi della ex Repubblica Democratica), 400 marchi in più rispetto a dieci anni fa. Ma dietro a questa media si presentano grosse differenze tra i diversi tipi di lavoro: si va dai 1870 marchi che guadagna un muratore che installa impalcature ai circa 600 marchi di un’apprendista parrucchiera. Considerando questa media di 1000 marchi al mese, vediamo quanto costa e quanto rende un apprendista. Si spendono 29573 marchi all’anno per il personale che istruisce l’apprendista, le tariffe per gli esami, la retribuzione dell’apprendista, i libri di testo, i contributi per le assicurazioni sociali, l’equipaggiamento del posto di lavoro, i corsi di aggiornamento.L’apprendista “rende” all’azienda in media 11711 marchi, e dunque costa all’azienda 17 800 marchi all’ anno. E’ evidente che l’ addestramento costa molto, ma produce anche molti vantaggi ed in particolare: *produttività dell’ apprendista con il suo apporto lavorativo nell’ azienda *formazione di operai specializzati che si possono inserire subito nel ciclo produttivo. E se l’ azienda decide che ci sono le condizioni per assumere l’apprendista dopo il tirocinio, si presentano ancora altri vantaggi: 1) riduzione di costi per nuove assunzioni 2) riduzione di costi per l’addestramento di altre persone che devono venire inserite nel nuovo lavoro 3) minore rischio di assumere persone non idonee 4) minore cambiamento di personale 5) possibilità di avere subito a disposizione personale già addestrato, se un dipendente viene a mancare. L’importanza della formazione professionale viene evidenziata anche dai dati seguenti, che mostrano quale era il bisogno di prestatori d’opera rispetto al loro titolo di studio nel 1987 e quale sarà in futuro, nel 2010. Come dieci anni fa, anche tra quindici anni ci sarà bisogno di persone con un titolo di scuola professionale (il 58%, più della metà!). Aumenterà il bisogno di persone con uno studio ancora più specializzato, sia della scuola superiore d’istruzione professionale, che degli istituti superiori o delle università, ma soprattutto diminuirà in misura rilevante la richiesta di lavoratori senza alcuna qualifica (dal 23,2 al 13%) che saranno di fatto condannasti alla disoccupazione. Data la permeabilità tra istruzione in azienda e istruzione scolastica, è anche possibile arrivare, grazie al SISTEMA DUALE, alla maturità e persino a uno studio universitario. Una completa istruzione professionale, per esempio fino al titolo di “maestro artigiano”, gode di alta considerazione nella società e non ha nulla da invidiare ad una laurea all’ Università, e tra i nostri meccanici, quelli che hanno assolto sia un’istruzione professionale che uno studio universitario sono quelli che hanno un maggiore successo. Da questa mia esposizione sul SISTEMA DUALE si può rilevare il suo ampio grado di accettazione da parte di tutti i settori della società. Stato, Associazioni dell’Industria e dell’Artigianato, datori di lavoro e sindacati collaborano a tutti i livelli per contribuire alla buona riuscita di questo sistema. Naturalmente ci sono anche discussioni e motivi di attrito su alcune questioni e alcuni punti avrebbero bisogno di modifiche. Vorrei farne un breve accenno anche in questa sede. Lo Stato cerca di incrementare l’aspetto scolastico dell’ istruzione professionale, per esempio due giorni di scuola in settimana invece di uno e le aziende non sono daccordo. Ma, in questi tempi di basso tasso di natalità, anche gli insegnanti devono avere un’occupazione sicura ed essi hanno molta voce in capitolo anche in Parlamento, dove rappresentano il gruppo più folto dei deputati. L’addestramento a molte professioni è antiquato e i contenuti spesso non rispondono più alle esigenze del nostro tempo (pensiamo solo all’ informatica o all’elettronica) e, purtroppo, il cambiamento dei piani di studio è impresa lunga e complicata(per le nuove normative del piano di studi dei nostri meccanici ci sono voluti ad esempio dieci anni). Il 5 – 10 percento dei nostri ragazzi vanno a scuola solo per “scaldare il banco” e non hanno la voglia o la capacità intellettuale di seguire le lezioni. E’ nostro compito dare anche a questi ragazzi delle prospettive professionali anche se naturalmente al di sotto del livello medio attuale. Per esempio si può proporre un’istruzione a tempi ridotti – due anni – per mestieri particolari. I sindacati sono contrari a questa proposta, perchè anche il salario di questi ragazzi sarebbe naturalmente più basso. Secondo me invece – ed è opinione dei datori di lavoro – bisognerebbe portar via questi ragazzi dalla strada e dai sussidi di disoccupazione. In grandi città come Monaco di Baviera, circa un terzo degli apprendisti meccanici sospende l’addestramento e un terzo dei rimanenti non riesce a passare l’esame finale, perchè il livello dell’istruzione professionale è molto alto. Per questi ragazzi si potrebbe creare l’addestramento a nuovi mestieri, come per esmpio quello di meccanico del riciclaggio, con un periodo di istruzione di due anni ( invece di tre e mezzo dei meccanici) e minori esigenze dal punto di vista scolastico. La retribuzione degli apprendisti è aumentata molto più dei salari e degli stipendi in generale. Insieme ai contributi per le assicurazioni sociali, questo onere finanziario diventa sempre più pesante per le aziende, anche perchè da noi la situazione economica, anche nell’artigianato, sta diventando sempre più precaria. Forse si potrebbe pensare a un anno senza aumenti della retribuzione, per concedere un po’ di respiro alle aziende e convincerle ad assumere nuovi apprendisti. Sono piccoli e grandi problemi, che però non scuotono il pilastro dell’istruzione professionale in Germania, che rimarrà anche in futuro importante e indispensabile. |
Luigi Frey – Lavoro
Integrati e Autonomi
Le innovazioni tecnologiche ed organizzative producono sempre più consistenti risparmi di lavoro per unità di prodotto e quindi hanno effetti molto rilevanti sulle quantità di lavoro impiegate nella produzione di beni e servizi. Sta come è noto qui la genesi di una disoccupazione notevole e crescente, che rappresenta un problema di tutte le società come dimostra l’esperienza della stessa Germania, che nonostante sia orientata ad assumere un ruolo attivo e dominante nel processo di globalizzazione dei mercati, non è certo immune da questi problemi.
Il notevole risparmio di lavoro conseguente alle innovazioni genera non solo problemi di disoccupazione ma anche di sottoccupazione e di precarietà. Nelle dinamiche in atto e, ancor più in quelle attese per il futuro, la possibilità di inserimento nei processi produttivi potrebbe appartenere sostanzialmente al lavoro di alta qualità e a quello di qualità relativamente bassa mentre sembra in vista un ridimensionamento drastico delle possibilità di espansione dell’occupazione per larga parte della fascia intermedia.
Abbiamo in pratica dinanzi a noi una prospettiva nella quale coesisteranno una situazione di disoccupazione di massa e dinamiche occupazionali rilevanti per il polo a più alta qualità e per quello a più bassa qualità, anche se entrambi questi poli avranno essi stessi problemi di precarietà connessi al mutamento continuo ed incessante dei processi produttivi. C’è un problema di capacità di adattamento del lavoro ai processi di cambiamento rispetto ai quali chi non è adattabile sarà sempre più debole.
Il lavoratore che è disponibile ad accettare posti di lavoro di bassa qualità, quelli che nel linguaggio anglosassone sono chiamati bad jobs, posti di lavoro che hanno condizioni di lavoro che generalmente non sono desiderate, sono lavoratori di limitata capacità di adattamento e sono dunque soggetti ad un flusso continuo di entrata ed uscita. Gli stessi processi migratori di massa a livello internazionale contribuiscono a esasperare questa entrata e uscita continua dai processi produttivi del lavoratore che accetta il bad job.
Per quanto riguarda i good jobs, i lavori ad elevata qualità, il problema della capacità di adattamento è legato molto alla possibilità di avere una base culturale adeguata ad accettare il cambiamento, a gestirlo anzi con un ruolo di attore positivo. E’ un discorso molto grosso, che investe la tematica della formazione, i suoi contenuti, il suo rapporto con il lavoro. Una formazione che sempre di più è vista in tutte le dimensioni come una lifelong learning, cioè una formazione che dura per tutta la vita, una vita che data la possibilità di invecchiamento della popolazione tende ad essere sempre più lunga.
Ma i processi di cambiamento in atto stanno avendo un effetto molto importante anche in un’altra direzione, quella del lavoro autonomo (qui occorrerebbe definire che cos’è il lavoro autonomo: l’imprenditore, il libero professionista, l’impresa che ha una base sostanzialmente familiare, lo stesso telelavoro rientra in parte in tale ambito così come forme che sono chiamate di economia informale delle varie realtà del lavoro). Il lavoro autonomo ha avuto un ruolo molto rilevante nel passato ed è stato ridimensionato nella seconda fase della rivoluzione industriale, come dimostrano i dati statistici relativi al peso crescente del lavoro dipendente e al ridimensionamento dello spazio di lavoro autonomo sul lavoro complessivo.
Con la società informatizzata riemerge l’importanza e il significato del lavoro autonomo, e riemerge da più punti di vista. In primo luogo perché il lavoro autonomo è per definizione flessibile e ha una dinamica connessa alla dinamica delle imprese. In tutti i paesi industrializzati le imprese nascono e muoiono con estrema rapidità nel primo anno di vita (non a caso tale fenomeno è chiamato mortalità infantile delle imprese). In media muore più del 30% delle imprese, in alcuni paesi come il Portogallo, addirittura il 50%. In Germania e in Italia, la media è comunque attorno al 30%. È chiaro però che questo fenomeno è accompagnato da quello speculare relativo alla natalità. C’è una dinamica continua di entrata e di uscita di imprese che sono accompagnate da entrate ed uscite di lavoratori.
Proprio la dinamica e la flessibilità del lavoro autonomo lo rendono particolarmente interessante e rilevante nella società informatizzata, perché lo rendono più capace di muoversi in una realtà in continuo cambiamento. È del tutto evidente che questo non basta a spiegare il suo successo crescente. Un altro aspetto positivo sta nel fatto che nella società informatizzata il lavoro autonomo ha caratteristiche molto più innovative di quelle che aveva nella società della seconda fase di rivoluzione industriale. All’inizio il lavoro autonomo era prevalentemente o lavoro agricolo, quindi legato all’attività della terra, o lavoro autonomo di tipo artigianale. In Baviera, per esempio, non so perché erano ebanisti, e il mio cognome è un cognome che significa in tedesco, frei, libero, che vorrebbe dire una persona liberata dalla servitù della gleba in quanto artigiano.
E l’artigiano, in una realtà con un dinamismo non molto marcato, era innovatore, lavorava la materia, faceva l’opera d’arte, aveva il modo di rendere redditiva la propria creatività. Nella società industriale il lavoro autonomo è invece normalmente un qualcosa di collegato al sistema industriale (inteso nel senso anglosassone multisettoriale) un “pezzo” di sistema produttivo dipendente esterno alla realtà d’impresa.
Nella società informatizzata il lavoro autonomo riconquista dunque in misura notevole la propria capacità creativa, di lavoro capace di profonde innovazioni. Per innovare non è più necessario avere grandi capitali, ed è molto più importante il rapporto tra la persona e la macchina (il computer in primo luogo) come dimostra anche l’iniziativa odierna. Questa è una prima novità rilevante rispetto al lavoro autonomo della prima parte di questo secolo.
Una seconda novità sta nel fatto che nella società informatizzata il lavoro autonomo ha una propria capacità di realizzare economie di scala ed economie di scopo, come dimostrano le ricerche che sono state fatte per esempio sui sistemi industriali integrati. Le economie di scala e di scopo producono vantaggi in termini di costo che normalmente nella seconda fase di rivoluzione industriale erano collegati alla produzione di massa (producendo una grande quantità di un determinato bene si produceva ad un costo minore per unità di prodotto).
È chiaro però che per realizzare economie di scala e di scopo, economie di scala legate alla dimensione della produzione, di scopo legate alle interazioni e così via, bisogna che le aziende di piccole dimensioni si colleghino l’una con l’altra. L’azienda di piccole dimensioni da sola non ha capacità di sopravvivenza e la sola capacità creativa non è sufficiente ad assicurarne lo sviluppo. L’azienda di piccole dimensioni ha dunque bisogno di collegarsi in rete con altre aziende con le stesse caratteristiche. Queste reti integrate consentono economie di scala e di scopo addirittura superiori alle aziende di grandi dimensioni, tant’è vero che un famoso economista americano ha sostenuto recentemente che è necessario che la grande impresa acquisisca economia di scala e di scopo riorganizzandosi sotto forma di piccole unità produttive integrate.
Abbiamo finora parlato di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, vorrei ora soffermarmi su un terzo aspetto riferibile alle prospettive del lavoro nella società informatizzata. La più rapida comunicazione, la più rapida interazione e integrazione tra persone e strutture sociali, fa sì che questa società presenti una caratteristica molto importante: una massa enorme di bisogni che il sistema produttivo, in particolare quello che si riferisce ai normali meccanismi di mercato, non riesce a soddisfare.
Si possono fare esempi in varie direzioni. Basti pensare ai bisogni connessi alla salute, a partire da quelli alimentari, ai bisogni di istruzione in senso lato che, come è ovvio, non possono essere finalizzati al pur importante aspetto del lavoro, all’uso corretto e soddisfacente delle risorse naturali. C’è un’esigenza forte di dare risposte positive a questi bisogni che solo in parte viene soddisfatta attraverso il lavoro dipendente utilizzato in quella direzione.
Dunque anche per questa via vi è grande spazio per il lavoro autonomo, il lavoro individuale e quello di imprese di piccole dimensioni anche di tipo cooperativo. C’è un fabbisogno che deve essere soddisfatto e quindi c’è un canale aperto di potenzialità, di impiego di risorse umane che merita attenzione. Arriviamo con ciò al secondo significato del lavoro: il lavoro come bisogno in sé e non soltanto come canale attraverso cui si ottengono i mezzi per soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia. Il lavoro è infatti anche un bisogno in sé, come si coglie da tutta una serie di indagini che riguardano per esempio il lavoro giovanile.
I giovani si sentono frustrati per la mancanza di lavoro non soltanto perché non ottengono reddito per soddisfare i propri bisogni, non hanno la possibilità di concorrere al reddito familiare, ma anche perché non riescono a soddisfare loro profonde esigenze che vanno al di là del reddito e sono in sostanza collegate alla capacità di organizzare la propria vita in un sistema di valori riconosciuto. In pratica il giovane non avendo il lavoro non riesce a organizzare la propria vita in modo organicamente inserito nel sistema di valori proprio della società nella quale vive.
Ovviamente questo aspetto si collega ad altri aspetti, in particolare alla possibilità di contribuire a creare il proprio futuro che è fondamentale sia per i giovani che per gli altri. La possibilità di contribuire a creare il proprio futuro è un bisogno formidabile esistente in ciascuno di noi che porta ad esigere un lavoro non concepito come pura produzione di beni materiali, ma di creazione e di utilità in senso lato. La mancanza di lavoro produce profonde frustrazioni e finisce con l’essere fattore di emarginazione rispetto al contesto sociale.
Questo vale ovviamente anche per chi un lavoro lo aveva e lo ha perso. L’operaio che non riesce a trovare altro lavoro, dopo avere avuto l’illusione che col lavoro nell’industria sarebbe stato lavoratore dipendente per tutta la vita con la garanzia di reddito per sé e per i propri familiari, vive in quanto componente della società una situazione particolarmente drammatica. Il lavoro concepito come bisogno di partecipazione attiva al sistema economico sociale viene ad essere un valore e un bisogno particolarmente importante.
Concepire il lavoro come bisogno diretto che deve essere soddisfatto induce tutta una serie di riflessioni su quelle che possono essere le potenzialità di medio e lungo termine per la creazione di spazi lavorativi che consentano di soddisfare i bisogni potenziali non soddisfatti che prima ricordavo.
A livello internazionale ci sono iniziative di estremo interesse in questa direzione. A parte il discorso che facevo prima relativo all’utilizzo del lavoro autonomo come spazio creativo che tenta di costruire qualcosa di assolutamente nuovo rispetto all’esistente e quindi di innovare dal punto di vista imprenditoriale, vi è tutta una serie di altre esperienze che fanno riferimento alla necessità di concepire il lavoro di cura, il lavoro destinato a soddisfare bisogni essenziali insoddisfatti che riguardano la cura propria e di altri, come forma di partecipazione al sistema economico e sociale in modo attivo. Questo carattere di partecipazione alla realtà collettiva può legare strettamente, in modo interattivo, il lavoro di cura al lavoro per il mercato.
È chiaro che il lavoro di cura non è un lavoro al di fuori del mercato, non è soltanto un valore d’uso, è anche valore di scambio, comporta cioè uno scambio per partecipazione attiva alla realtà economico sociale. Ci sono esperienze, tipo banche del tempo, di estremo interesse dal punto di vista della possibilità di uno scambio a questo proposito.
C’è un esempio che viene fuori dalla nostra esperienza odierna: la mia attività attuale è di questo tipo, cioè un lavoro di scambio, dato che partecipo a un processo di mia autoformazione, dato che sto imparando moltissimo dalla partecipazione a questa iniziativa, e nello stesso tempo sto dando in cambio il capitale umano e professionale accumulato attraverso la mia attività di formazione e di ricerca. Questo rapporto di scambio non è un rapporto monetario, però è sempre un rapporto di scambio e quindi ha un suo significato dal punto di vista del mercato in senso lato: anche se non è un lavoro mercantile in quanto tale è un lavoro che ha un suo significato.
Gli spazi che si aprono sono estremamente interessanti, come dimostrano alcune esperienze a livello europeo. Come fare per coglierli appieno? Come creare nuovi lavori in questa società sempre più automatizzata? E’ il terreno di impegno e di ricerca per ciascuno di noi.
Alessandro Vezzosi – Profezia
Elogio del dubbio
Qui si dirà di profezie, si salterà di passato in futuro, si andrà da frammento in frammento fino ad arrivare a ciò che mette un po’ in discussione il senso della profezia, e di cui pure vorrei parlare: il Museo. Nel trattare di questo confine sottile tra arte e altre forme di possibili culture, e affrontando Leonardo così come esperienze di neo avanguardie contemporanee, mi piace parlare di alcune cose, come ad esempio il dubbio e la contraddizione, che ritengo fondamentali se ci avviciniamo, al di là del mito e della retorica, a personaggi come Leonardo.
L’idea della profezia è nata, come tema programmatico, da una breve frase che dice: “Parleronsi gli uomini di remotissimi paesi li uni a li altri e risponderansi”. Questi uomini che si chiamano e si rispondono da lontani paesi ci suggeriscono molte immagini tecnologiche. In realtà questa è una delle tante frasi, piccolissime, minute, scritte da Leonardo da Vinci con calligrafia al rovescio, esattamente cinquecento anni fa, in una pagina di quel Codice Atlantico che, tutto sommato, non ha avuto un destino favorevole nonostante i diversi auspici di alcune profezie napoletane.
Fu infatti il segretario di un cardinale di Aragona, un certo Antonio De Beatis, recatosi nel 1517 a incontrare Leonardo alla corte del re di Francia, presso Ambois, che annotò l’opinione sua e del cardinale, scrivendo “Leonardo ha tre quadri bellissimi (uno era la Gioconda); Leonardo si dedica a tanti studi ed è paralizzato (aveva una emiparesi ma continuava a disegnare e a insegnare); i suoi codici trattano di infinite cose, sono infiniti fogli, saranno utilissimi, soprattutto se saranno conosciuti e pubblicati”.
Ma quei fogli non sono stati conosciuti, né pubblicati, per tantissimi anni. Addirittura, quando agli inizi del Seicento il Codice Atlantico fu offerto al Granduca di Toscana, fu drasticamente bocciato dai consiglieri di quest’ultimo che affermarono: “Non sono cose degne di Vostra Altezza, sono cose triviali”. Insomma i contenuti di questi scritti di Leonardo, che sicuramente avrebbero portato un ben altro contributo all’evoluzione del sapere in generale e del rapporto tra arte e metodologia della scienza, arte e metodologia della tecnica, si sarebbero potuti conoscere molto prima. E ci saremmo salvati in qualche modo anche dalla scoperta, in fondo tipica del nostro ventesimo secolo, del Leonardo genio italico che aveva inventato tutto quando invece altri prima di lui, o insieme a lui, inventarono le stesse cose.
Il fatto è che in Leonardo c’era un metodo particolare. E questo metodo era naturalmente quello della scienza. Quando Leonardo tratta la scienza è l’artista della scienza, ed è l’artista delle macchine, e in quanto tale affronta la profezia con un taglio particolare, che è veramente stimolante. Avremmo dunque conosciuto con netto anticipo, se fossero state pubblicate e divulgate, profezie come quelle che, in un certo senso, Leonardo scrisse per Austro e Aquilone.
Lui, umanissimo che traversava le più dirette esperienze con vivacità intellettuale, (non era “trombetto”, come diceva lui stesso, ma uomo d’esperienza e del fantastico, dell’immaginario) ci dà la possibilità, sempre nel Codice Atlantico, di leggere questo: “Vedrassi le parti orientali discorrere nelle occidentali, le meridionali in settentrione, così avviluppandosi nell’universo con gran strepito e furore”.
Questa cosa del meridionale in settentrione, questa dell’avvilupparsi dei linguaggi, per Leonardo significava il vento. Egli partiva dall’osservazione di un dato naturale, e da qui creava una metafora e proiettava tutto nella dimensione dell’arte, quella verbale e quella fatta di immagini. E potremo leggere un giorno un Leonardo anche in chiave ideologica.
Farei qui un primo salto verso quelle che sono le profezie contemporanee, quelle che non patiscono i fantasmi e l’ingombro del passato. L’occasione mi viene da un libro che ho trovato tra i Remainder, pubblicato più di venticinque anni fa, dal titolo “Profezie di una società estetica”, e scritto da Filiberto Menna, un grande studioso, un grande critico dell’arte contemporanea, salernitano di origine.
Quando un artista lo odiava, magari perchè non si sentiva capito dal punto di vista critico, diceva di lui: “Ma cosa vuoi, è nato alla critica d’arte partendo da “Lascia e Raddoppia”. Il tutto perché, da professionista che si occupava anche di altre cose, aveva collaborato ad una trasmissione televisiva. In realtà è al meccanismo della passione, quella vera, che corrisponde quel fattore di autenticità che poi rende forti le idee. E ciò vale in particolar modo in tutte quelle che sono le dimensioni delle arti.
Naturalmente, quella profezia di una società estetica è mancata fortemente negli ultimi tempi, anche se in parte “accade” a “tradimento”, d’improvviso.
L’arte è sempre più diffusa nella società contemporanea, ed in quanto tale vive dunque fortemente. Essa non solo subisce tutti i condizionamenti del sistema in generale, ma per certi versi acutizza e precede i sintomi di crisi, cosicchè è naturale trovare nell’arte tanto continue profezie su quella che sarà o potrebbe essere la società di domani, quanto gli immediati sintomi del malessere. Se le ideologie vivono un momento di crisi, se determinate identità vengono perse, o se sono nell’aria i segni di una nuova rivoluzione, l’arte è lì a segnalarlo, proprio come fosse una profezia sistematica.
Qualche tempo fa, un personaggio straordinario come Carlo Giulio Argan, proprio lo stesso che una volta ha scritto: “lo storico dell’arte, il critico d’arte deve essere un profeta o un archeologo” profetizzò, o piuttosto rilevò, la morte dell’arte. Una morte che assolutamente non c’è stata, ma in quella maniera Argan intendeva proporci alcune riflessioni. Al di là dello schematismo di un breve testo, la sua idea del mondo dell’arte, come fabbrica dell’arte, richiedeva la presenza dell’archeologo, del profeta, e di tante altre figure. Come storico dell’arte, la scelta naturalmente era quella dell’archeologo, e naturalmente la morte dell’arte sembrava inevitabile in un sistema che tendeva a escludere, tende a escludere ancora oggi in buona parte, le componenti incontrollabili dell’arte vera.
Questo è un grosso problema che ovviamente la politica sembra sempre meno poter risolvere, perchè i suoi tempi sono troppo diversi da quelli dell’arte. I tempi brucianti, i tempi strumentali della politica, di fatto non possono rispecchiare quelli dell’arte, che sono per certi aspetti velocissimi nell’idea, per certi altri lunghissimi in tutti quelli che sono gli echi sociali.
Un momento di crisi fortissima, nella storia dell’arte contemporanea, nonostante non sia stato molto rilevato, dato che in questo grande arcipelago della cultura che ruota intorno alle arti tutto è vissuto settorialmente, ogni isola non parla con l’altra, e ogni isola non parla con le altre discipline, s’è registrato nel 1979.
Allora si verificò un punto di rottura con la transavanguardia, che ha prodotto per un verso cose giuste, come il recupero di una vitalità interna all’arte, ma per un altro ha messo in crisi di tutte quelle che erano le ideologie dell’arte e tra queste quella nozione di avanguardia che poteva sembrare anacronistica, ma che in realtà contraddistingue tutto un filone utopico e profetico dell’arte dall’antichità ad oggi. Basti pensare al Rinascimento e all’Umanesimo, intesi come antiche avanguardie, e alle avanguardie del ventesimo secolo.
Una delle sue grandi componenti recenti, che mi ha da sempre interessato, è stata quella della poetica della “reverie”. Accanto a una visione razionale delle cose, quella stessa per cui Argan poteva affermare: “Da razionalista ho vissuto, da razionalista voglio morire. Non posso accettare la transavanguardia e un’arte senza ideologia”, c’è nell’arte quella che potremmo definire la componente del “fantastico insidioso” come punto estremo e in questo ambito la poetica della “reverie”, per me, ha sempre inciso moltissimo.
Qualche tempo fa si parlava con un amico del rapporto esasperato e profondo esistente tra la vita privata e il rapporto pubblico, tra il lavoro e la famiglia, tra tutte una serie di coincidenze, perchè un’arte della reverie significa un arte che respira e cresce con noi, un’arte completamente imprevedibile, che ha il suo respiro vitale, e che tende ad avere questo respiro assoluto, tra il mimetizzarsi per tradire le apparenze e lo svelarsi profeticamente.
Posso fare un piccolo esempio, anche per chiarire quanto ci si può immedesimare in queste cose, e poi mi piace salutare persone che in questo momento non sono con me. Tanti anni fa sono stato tra i fondatori di un’associazione che si chiamava Museo-Reverie, il museo immaginario. Questa associazione si è sciolta esattamente tre anni fa, il giorno in cui è stato creato, a Vinci, il museo ideale Leonardo da Vinci. Negli stessi giorni nasceva mia figlia, che si chiama Reverie. In una forma di incarnazione, di materializzazione c’è la possibilità di ricercare sempre un’identità vera e forte, tra idee forti, e quello che è l’attraversamento delle esperienze artistiche, culturali, tecnologiche.
Avendo saltellato abbastanza, vorrei tornare a Leonardo ed alle profezie.
Quando Leonardo scrisse: “Parleransi li omini di remotissimi paesi l’uno a l’altro e risponderansi”, sicuramente poteva pensare alle lettere, allo scrivere la posta, ad una sorta di posta elettronica, ma tutto questo non gli bastava. Leonardo si poneva, ad esempio, il problema del citofono militare, perchè sapeva già che gli antichi sciiti, gli arabi, usavano un sistema di citofoni che consentiva, quasi con la stessa rapidità del telefono, di comunicare velocemente tra loro.
Ma lui arriva anche a dare una definizione, un inquadramento abbastanza preciso delle profezie:
1) profezia delle cose degli animali razionali; 2) degli irrazionali; 3) delle piante; 4) delle cerimonie; 5) dei costumi; 6) dei casi e delle questioni; 7) dei casi che non possono stare in natura, come dire, di quella cosa quanto più ne levi più cresce.
Bisogna capire veramente lo spirito teorico di un saggio che al tempo stesso gioca sull’ambiguità, l’ironia toscana, l’indovinello e che dice, nell’ottava profezia delle cose filosofiche: “e riserva i gran casi inverso il fine e i deboli nel principio, e mostra prima i mali e poi le punizioni”. Vorrei ricordarne alcune di queste profezie.
“Verrà a tale la generazione umana, che non s’intenderà il parlare l’uno dell’altro”, ed in questo caso parlava di un turco ed un tedesco, ed è tuttora misterioso se c’è una ragione ideologica, di guerra, o quale altra consapevolezza. Ma c’è una forma di profezia che chiaramente tocca la fantascienza, perchè la scienza antica è particolarmente vicina ai temi della fantascienza, che mi è venuta in mente leggendo un’intervista a Veca seguita al suo intervento a questo stesso convegno e pubblicata sul Mattino.
Veca dice: “io insisterei molto sul fatto che noi uomini siamo animali parlanti. Il linguaggio è per definizione pubblico, implica condivisione”. Mi sembra molto bello come rapporto. Leonardo ha una profezia, una visione, e scrisse cinquecento anni fa quello che recentemente, per ragioni di mestiere, è stato abbinato al caso forse più retorico, più inopportuno, più propagandistico, ma pieno di effetti speciali: il film “Independence Day”.
Leonardo scrive: “Alli omini parrà vedere nel celo nove ruine, parrà in quello levarsi in volo, et di quello fuggire con paura le fiamme che di lui discendono. Sentiran parlare li animali di qualunque sorta il linguaggio umano, scorreranno immediate con la lor persona in diverse parti del mondo senza moto, vedranno nelle tenebre grandissimi splendori. O meraviglia delle umane spezie, qual frenesia ti ha sì condotto. Parlerai con li animali di qualunque spezie, e quelli con teco il linguaggio umano. Vedratti cadere da grandi alture senza alcun danno”.
Cosa sono, sempre, queste? Sicuramente sono le prefigurazioni che un personaggio aperto a qualsiasi esperienza poteva condensare nell’insieme di quello che dicevo prima: le contraddizioni e il dubbio. In sostanza Leonardo parte da un presupposto: “tutto ciò che è sperimentato è vero, quello che non è sperimentato io non lo credo”, però, via via, continua a dare grande spazio al sogno, all’irrazionale e arriva anche ad affermare di volta in volta, a seconda dei casi, che “quando le ragioni sono chiare non c’è bisogno dell’esperienza”.
Queste contraddizioni sono tipiche di una mentalità che io continuo a considerare artistica. Essa pone tanti interrogativi e tanti dubbi a chi oggi affronta sistematicamente le tecnologie, i sistemi di una comunicazione tecnologica, perchè se si toglie tutta la parte relativa alla profezia estetica, alla componente più imprendibile, inafferrabile, mercuriale di un avanguardia, indubbiamente si tolgono tante potenzialità. Vi leggo ancora un paio di profezie, semplicemente per entrare in una dimensione curiosa di Leonardo. Egli definisce i libri e li chiama “i corpi senz’anima, che ci daranno con lor sentenzie precetti utili al ben morire”. Curiosa questa cosa dei corpi senz’anima.
Leonardo è stato sempre considerato e definito il profeta dell’automazione, e tutto sommato si è interessato alla robotica dato che ha prefigurato forme di automazione che nemmeno la rivoluzione industriale ha introdotto. Ed in effetti nel suo lavoro, nei suoi codici, ci sono degli ipertesti continui con parole, immagini, rimandi e tutta una serie di cortocircuiti tipici del ragionamento informatico. Che lui non avesse la macchina e non potesse costruirsela è un altro discorso.
Ma aldilà dei suoi alberi geometrici e matematici c’è sempre questo carattere, estremamente pregnante per noi oggi, sorprendente, rivelatore. Naturalmente il profeta dell’automazione tende anche a fare un’altra cosa e, per esempio, personifica, perchè per lui tutto è umanizzato: ed allora le piante, sono esseri viventi che parlano, che ragionano, che sono da esempio per l’uomo. La maggior parte degli studi tecnologici di Leonardo si è rivolta all’automazione del mondo tessile, e ci sono decine e decine di macchine concepite per quattro o quaranta persone contemporaneamente, proprio come una visione del sistema del lavoro, dell’economia, del risparmio del tempo, e, problema fondamentale, del risparmio della fatica umana, aumentando i guadagni.
Tra l’altro Leonardo sogna sempre il guadagno, gli piace fantasticare sul guadagno che potrebbe fare lui, gioca anche ai segreti, ai brevetti, e via dicendo. E mentre tende a vedere un progresso in questa tecnologia che porterà al risparmio di fatiche, quando però arriva alla macchina tessile scrive: “sentirassi le dolenti grida, le alte strida, le rauche, infuocate voci di quelli che fiano con tormento e spogliati e alfine lasciati ignudi e sanza moto, e questo fia causa del motore che tutto volge”.
Ritorna ancora una volta la contraddizione, il non poter mai prendere una cosa in senso letterale: questo fa parte del linguaggio artistico. Alcuni giorni fa ho sentito a una dottissima conferenza parlare di Leonardo e ricordare quando egli scrive: “Porterassi neve di state nei lochi caldi, tolta dalle alte cime dei monti e si lascerrà cadere nelle piazze, nelle feste, nel tempo dell’estate”. Tutti a pensare: Leonardo studia il volo degli uccelli e pensa di portare dai monti la neve con chi sa quali espedienti. Invece, molto più semplicemente egli stava parlando ironicamente dell’acqua, la neve d’estate, che si porta nelle piazze per dar vita alle fontane.
Ecco dunque questa capacità di contraddirsi e di sostenere in certi casi, lui che era un uomo pratico in cerca di una teoria, l’importanza non solo del linguaggio verbale, ma dell’icona, della figura. Infatti dice: “è necessario figurare, l’anatomista tutto sommato è inerme, il medico anatomista, perchè non è in grado di figurare adeguatamente”. E ancora: “Quanto più minutamente descriverai con le parole, tanto più confonderai la mente del lettore; è necessario figurare”.
L’aver delineato un Leonardo così multiforme, Leonardo come mondo, Leonardo come epoca, Leonardo come scenario di cultura, mi dà la possibilità di rifare un salto avanti. E mi piace farlo avvicinandomi a un episodio recente, per entrare da un lato nel merito della comunicazione, dell’etica della comunicazione, in quelli che sono i fenomeni di riscoperta o di spettacolarità del presente, di quello che è l’effetto della comunicazione oggi, anche in rapporto al passato e per affrontare dall’altro, ancora una volta, i grandi temi dell’utopia e della profezia.
Tempo fa è uscito su un giornale napoletano una recensione di una mostra, nella quale si dice: “Il sottomarino di Leonardo. Il genio fiorentino voleva sbarcare a Napoli con un sommergibile”. Il riferimento era ad una piccola mostra, un anteprima, che avevo curato al Castel dell’Ovo e che tra l’altro riporta su questo viaggio a Napoli sul sottomarino una serie di mie opinioni, alcune delle quali da me effettivamente sostenute. Il tutto è nato da un titolo di un comunicato stampa che riprendeva il fatto che Leonardo in un suo promemoria di viaggio aveva scritto proprio così: a Napoli con il sommergibile… e con il modo di camminare sopr’acqua. E dal fatto che nella mostra era presentato il sommergibile ricostruito per la prima volta in base ad alcuni accenni di Leonardo.
Ma ovviamente nessuno sbarcava col sommergibile, ed il modo di camminare sopr’acqua è un altro tema che è naturale che affascinasse Leonardo come qualsiasi uomo che sogna profeticamente, che sogna un futuro. Il problema della corrispondenza tra la comunicazione e quello che si vorrebbe comunicare è dunque un punto fondamentale. E a me interessa entrare nel merito di quello che è lo specifico ancora una volta di un approfondimento nello studio dell’antico.
Leonardo aveva le sue utopie, spesso voleva quadrare il cerchio, e studiava il moto perpetuo. “Mi hanno dato oggi – scriveva in una mattina di natale – per mancia questa invenzione”. Aveva trovato cioè la quadratura del cerchio di una luna. Poi cancellava perchè non era vero. Così come di volta in volta scriveva: “eccetera, perchè la minestra si fredda” proprio negli stessi fogli di matematica e andava a mangiare, poi cancellava quello “eccetera” e ricominciava gli studi di matematica. Leonardo sembra profetizzare la mano palmata, oltre al sommergibile, e tutta una serie di espedienti per andare sott’acqua.
E in tutto questo si pone anche un problema di etica, perchè dice: “Certi espedienti – sostanzialmente allude alla guerra sottomarina – non ve li rivelo perchè sono a tradimento. Io vi rivelo altre armi che si vedono, ma non quelle a tradimento, invisibili, perchè fanno parte di una concezione di guerra sleale che non condivido”. (Curioso questa senso dell’etica di uno che definiva la guerra “pazzia bestialissima”). Anche quando si afferma che Leonardo è stato il profeta di tutto questo andar sott’acqua, e addirittura del camminare sull’acqua e volare, bisogna essere sostanzialmente realistici. Va bene colpire la fantasia, l’immaginario del largo pubblico, ma se scaviamo ci rendiamo conto di come già ai tempi di Leonardo ci fossero problemi di comunicazione.
Leonardo ad esempio pensava che le maree non fossero dovute alla luna, ma fosse il fondo del mare che respirava l’acqua. Egli si basava su una verifica empirica e non arrivava a concepire la realtà. Era però informatissimo sulle maree di tutto il mondo, perchè in tutto il mondo cercava corrispondenti. Cosicchè qualcuno, insieme alle maree, gli comunica come in Fiandra camminano sul ghiaccio. E viene a sapere che nell’oceano indiano i cercatori di perle e di coralli usano gli occhiali da neve – così li chiama lui – perchè evidentemente conosceva questi occhialini come occhiali da neve, perchè viene a sapere che nell’oceano indiano li usano i sommozzatori, e che usano anche degli espedienti per restare sott’acqua.
Per quanto tutto questo in parte cancelli il mito di Leonardo profeta del nuoto, del nuoto subacqueo, così come in altri casi sembra cancellarci quello del volo, mantiene però sempre un margine forte di scoperta e di suggestione, dato che quando un artista mette insieme l’idea del volare in cielo, dell’andare sotto l’acqua e del camminare sopra l’acqua, proprio in una maniera da Cristo, ci fa ovviamente impressione. (Il sistema di camminare sull’acqua speriamo presto di sperimentarlo dal vero).
E ciò che resta non è solo tecnologia, ma anche sogno: il sogno del volo, per esempio, non è solo un sogno tecnologico ma è immaginario, è archetipo, è inconscio, è un qualcosa legato alla psicologia di tutti i giorni e dei momenti dell’eccezionale fantastico. E’ curioso vedere come artisti profetici, completamente diversi tra loro, del nostro secolo, un romantico-visionario come Boechlin e Taklin, il famoso costruttivista russo della Rivoluzione, abbiano tutti ripreso le idee di Leonardo e le sue profezie sul volo (alla fine diventano sue, anche se prima di lui molti altri ci lavoravano).
Ma dal volo torniamo un attimo a quello che è una forma “volante” (questo è veramente un salto)di museo. Abbiamo accennato prima alla realizzazione di un museo ideale, ideale anche perchè cerca di raccogliere stimoli, provocazioni, spesso forti provocazioni, per attualizzare una cultura altrimenti troppo mitizzata, ormai stereotipata. Per fare questo non bastava avere una sede stabile, fissa, ma era necessario creare degli strumenti nuovi. Il museo virtuale era anni fa ancora alle premesse, oggi è una cosa del tutto normale.
Il museo volante è una altra cosa che abbiamo dovuto approntare, per spostare fisicamente delle cose; e poi gli archivi che non sono concepiti in maniera statica, ma sempre in maniera molto aperta, e sempre con quella ginnastica tra il passato e il presente, fino al kitsch, fino al consumo, fino ai mass media, fino a tutto quello che è la messa in discussione del mito e non solo della retorica più banale. Questo discorso sui musei è molto importante per quanto riguarda il tema della profezia, perchè il museo apparentemente è una forma codificata, conservativa. Esiste a questo proposito una letteratura infinita: in estrema sintesi si può dire che c’è chi si è scagliato contro il museo, dai futuristi in poi, e c’è chi ha parlato di rinnovamento in maniera a mio avviso sbagliata.
Personalmente proverei a soffermarmi su tre tipi di musei.
Il museo che conserva le grandi opere della civiltà, della cultura, del sapere, e che dovrebbe però essere perfetto. Oggi appare inspiegabile, con tutte le tecnologie ed il sapere in nostro possesso, che i musei, che poi sono fondamentalmente delle macchine anche sul piano del lavoro, dell’economia, della produzione, siano così lontani dalla perfezione che dovrebbero esprimere, anche quando trattano di cose fondamentali per la civiltà del passato e del presente. Caserta ad esempio ha un museo che da solo ha una potenzialità infinita: con i suoi milioni di visitatori ogni anno, è uno dei musei più visitati d’Italia ed è pazzesco pensare che un museo del genere non inneschi tutta una macchina di produzioni culturali, di animazioni, di corti circuiti sociali.
Ci sono poi i nuovi musei, quei musei di arte contemporanea che si muovono spesso tra molti stenti, che si scontrano con l’incomprensione per le forme di arte attuale, perchè inspiegabilmente, dobbiamo riconoscerlo, l’arte che dovrebbe essere più facile per noi, quella del nostro tempo, è profondamente incompresa. E anche tra chi pratica l’innovazione e coloro che praticano l’informazione non sembra esserci alcun rapporto tra esperienze artistiche ed esperienze in cui operino tecnologie. E anche quando tale rapporto è minimo, o magari c’è e non ce ne accorgiamo, rimane pur sempre una sorta di rigetto verso una vera e propria interdisciplinarietà, una vera e propria interazione.
C’è infine quello che ho chiamato museo ideale, o si potrebbe meglio definire museo profetico. Il museo dove tutte le cose s’innestano come in una macchina attiva. Un museo estremamente vivo, che tiene conto di tutta una serie di problemi, innanzitutto quelli di etica e di democrazia.
La profezia di Leonardo relativa a questi uomini che oggi si parlano da lontano e si rispondono, fatta circa cinquecento anni fa, fa sorridere oggi, dato che anche a livello di musei, per esempio, io posso dialogare con tutti i musei del mondo. E infatti succede quotidianamente di parlare ora con l’India ora col Sudamerica. Ma non riesco a parlare nel mio Paese con l’altro museo, quello istituzionale, il museino tradizionale e pubblico, anche a causa delle degenerazioni del sistema politico che tende a creare posti di lavoro sbagliati per le persone sbagliate. Allora cos’è tutta questa comunicazione, se non può funzionare nello spazio di cinquanta metri? Oppure, e salto ancora da un caso all’altro, com’è che viene vissuto questo miraggio di Bill Gates?
Voglio riportarvi un esempio che riguarda da vicino il nostro museo. Volevamo acquistare il codice Hammer, che abbiamo perso all’asta di New York, quando già avevamo scritto il comunicato stampa con il consolato italiano per annunciare che “Torna in Italia il codice Hammer”. Lo compra invece Bill Gates con cinquanta miliardi, fa una biblioteca apposta per accoglierlo, ma poi sta un anno senza vederlo perchè “naturalmente” sa di averlo.
Tutto questo introduce il grande tema dei diritti di autore, di quella che è libertà di informazione, di comunicazione e di quei musei perfetti, di cui parlavo all’inizio, quelli che custodiscono il sapere davvero straordinario, i capolavori assoluti. Ebbene, non si riesce a rinunciare all’idea di esporre l’originale per un secondo, e farti vedere una splendida, fedelissima riproduzione, per consentirti poi di accedere semmai per giorni interi a quelli originali, ma in altra maniera.
Questi musei qualche tempo fa si dovevano rinnovare, ma questo rinnovamento in cosa si è tradotto alla fine? All’inserire nei musei un caffè, un bar e uno shopping, e al tempo stesso nel far pagare diritti carissimi di autore su ogni immagine che viene riprodotta. Questo dal punto di vista della civiltà della comunicazione mi sembra la cosa più grottesca, perchè praticamente si andrà ad introdurre nei musei la vendita delle stesse cose kitsch che venivano vendute sulle bancarelle.
Si è rinunciato a cambiare la sostanza del museo e la sua vivibilità, dato che nessuno prenderà il caffè e si fermerà a dialogare all’interno del bar del museo, e al tempo stesso si sta costringendo tutti gli autori più seri, che finanziariamente non hanno disponibilità inesauribili, a non pubblicare più libri. I libri li pubblicheranno solo i funzionari delle soprintendenze dei musei, perchè questi vincoli insistiti sulla possibilità di fare fotografie, di averle, di pubblicarle, il costo che tutto questo comporta sta limitando fortemente l’informazione.
Credo sia questo un punto interrogativo da porci anche oggi, quando si parla di etica e di comunicazione, quando si parla di profezia della comunicazione, perchè è una profezia perfettamente tagliata.
Quando abbiamo pensato di realizzare il museo ideale avevamo in mente una forma apertissima di comunicazione, dove tutto quanto portasse a un caleidoscopio di scoperte, di situazioni praticabili, vissute, dove veramente anche il museo diventasse un opera d’arte vissuta. Tutto questo perchè? Per il senso profetico di vedere un rapporto costante tra l’uomo e il territorio, fra il museo e il suo territorio e il sociale; per l’idea che la scienza e la tecnologia operino veramente per il progresso civile; perchè tutto questo ci sembra irrinunciabile.
Concludo con una ultima profezia di Leonardo, che è diventata per noi un monumento, ma un monumento non retorico, un modello di monumento che speriamo di realizzare con l’aiuto di tanti e di tutti, compreso voi, in tante città del mondo. Leonardo dice che “piglierà il primo volo, il grande uccello, la macchina volante, sopra del dosso del suo magno cecero (il monte del Cigno presso Firenze) empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama le scritture, e gloria eterna al nido dove nacque”. Leonardo stranamente parla di gloria, e parla di fama, lui che continuamente si è dovuto scagliare contro i trombetti, contro tutto il sapere accademico e formale e libresco del suo tempo, rivendicando l’arte come scienza, come “prima” delle scienze, proprio per la sua capacità di intervenire sul reale.
Ecco la domanda con la quale intendo concludere: fino a quando, contrariamente a quello che succedeva in passato, l’artista resterà estraneo? Sarà allontanato dalla possibilità di intervenire nel progetto, e nella costruzione di quella che è la città del futuro e di quella che è la società del futuro? Di quella che è in sostanza una società, chiamatela estetica, chiamatela artistica, chiamiamola etica, ma comunque una società che a noi interessa, perchè è sicuramente più vivibile?
Come vedete non è una profezia, ma è una domanda dalla quale però spero nascano delle profezie, grazie anche a tanti piccoli frammenti di utopia realizzata. Del resto oggi è difficile realizzare una grande utopia, lanciare grandi profezie, ma forse possiamo, anche in contesti limitati, valutare la praticabilità di piccoli ma importanti messaggi da realizzare, piccole ma importanti strade da percorrere. E’ questa, con un po’ di retorica, la mia conclusione.
Roberto Marchesini – Videolavoro
Lavorare a distanza
È già stato accennato che cosa significa videolavoro, un termine coniato soltanto recentemente. Per la verità detto così potrebbe sembrare riferito a un lavoro che ha a che vedere con la televisione; invece non c’entra assolutamente niente. Il videolavoro è semplicemente una della accezioni o uno dei modelli a cui si fa riferimento quando si parla di telelavoro.
Il telelavoro è un argomento in questo momento abbastanza sotto i riflettori. In particolare dei mass media. Stamattina in ufficio ho trovato la solita rassegna stampa e nelle prime pagine sembra si parli soltanto di questo. E spesso in modo contraddittorio. Sullo stesso quotidiano, Il Sole 24 ore, si dice ad esempio : “sale la produttività con il telelavoro” e poi “telelavoro decollo lento”; oppure “il telelavoro fa crescere la produttività aziendale” e “nell’era del telelavoro diamo addio allo stress”. In realtà credo che la questione sia un po’ più complicata.
Esistono diversi modelli, diverse accezioni con i quali si può intendere il telelavoro: io farò riferimento soltanto a quei modelli, e a quelle accezioni, per le quali la mia diretta esperienza di lavoro in IBM può dare qualche contributo.
Non parlerò ad esempio di quello che si può identificare come lavoro a domicilio. Molte volte si parla di Telelavoro a domicilio nel senso che il lavoro viene portato a casa del lavoratore la cui casa viene attrezzata con tutti gli strumenti necessari per potergli far svolgere lo stesso lavoro che faceva in ufficio. Non ne parlo perché è un problema di cui non ho diretta esperienza, dato che nella mia azienda, questo tema è in fase di discussione, anche con le organizzazioni sindacali. Non avendo una esperienza molto diffusa su questo terreno, finirei col fare delle considerazioni di tipo teorico, di tipo generale, parlando di quelli che possono essere i problemi di tipo sociologico, organizzativo, psicologico e così via, e non sono la persona più qualificata per potere affrontare questi discorsi.
Parlerò invece di altri due tipi di telelavoro: uno è quello che si chiama normalmente lavoro mobile o ufficio mobile, come lo chiamiamo noi.
nella nostra organizzazione esistono delle figure professionali che sono i rappresentanti, persone che hanno il compito di andare dal cliente, individuare quelle che sono le sue competenze, individuare quindi tra le soluzioni possibili con i prodotti IBM quella che soddisfa meglio le sue esigenze.
Fino a qualche tempo fa anche il rappresentante IBM andava in giro con la sua borsa e con le sue carte, da un anno a questa parte invece circa duemila di loro sono dotati di un calcolatore portatile, un notebook, che si può collegare su di una linea telefonica chiamando un numero verde, quindi a totale carico della società. Sia a casa propria, sia presso il cliente egli può collegarsi quindi al sistema informativo aziendale.
A quale scopo? quali sono i vantaggi o i risultati che si possono ottenere da tutto questo?
Il rappresentante può ad esempio avere in tempo reale la presentazione di un determinato prodotto che serve al cliente in quel determinato momento; se, parlando con il cliente, si accorge che deve modificare qualche cosa nel contratto ha la possibilità di farlo direttamente in linea avendo i documenti che servono effettivamente in quel momento. Tutto questo fa sì che si riduca moltissimo il tempo che viene perso normalmente quando il rappresentante va dal cliente, discute, prende appunti di quello che serve al cliente, ritorna in ufficio, fa le sue cose, ritorna poi dal cliente con la documentazione e la dimostrazione pronta e così via. Oggi può essere realizzato tutto sul posto, ed è una soluzione che rende sicuramente più produttivo il lavoro. Non so se del 13% come si sosteneva su qualche giornale ma so che è un risultato ottenibile proprio perché persino intuitivamente è chiaro che si riducono moltissimo quelli che sono i tempi morti del contatto con la clientela.
Questo è quindi un primo tipo di modello di telelavoro o ufficio mobile.
Vorrei ora soffermarmi su di un altro tipo di modello e di accezione del telelavoro che riguarda direttamente la mia attività. io dal ’92 dirigo qui a Napoli un centro che ha come missione quella di sviluppare applicazioni multimediali. in queste applicazioni quindi ci sono testi, ci sono video, suoni, voci e immagini in movimento, animazioni ecc.
Queste applicazioni multimediali hanno una ulteriore caratteristica: per il loro sviluppo si richiede l’integrazione di diverse professionalità. Una è certamente la professionalità o la competenza informatica. C’è poi l’esperto di comunicazione ovvero colui che dà la sceneggiatura o fa la sceneggiatura dell’applicazione, che individua quello che è il target come utente dell’applicazione e quindi definisce qual è l’applicazione o come deve essere strutturata in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati. C’è l’esperto dei contenuti, che conosce la materia che si sta trattando in quel momento e che quindi fornisce i contenuti; il grafico, che sa fare i disegni, le animazioni; colui che produce l’audio; quello che produce o gestisce il video; quello che acquisisce le immagini. tutte queste professionalità vengono integrate dalla professionalità informatica per avere un insieme integrato e quindi una applicazione multimediale.
Queste diverse professionalità, per realizzare una applicazione informatica, devono concorrere in modo molto interattivo, devono cioè interagire continuamente tra di loro. Si rischia altrimenti, se non sono coordinati opportunamente, che ognuno vada per la sua strada, con il risultato di ottenere un prodotto che non funziona, che non riesce a raggiungere quelli che sono gli obiettivi prefissati. Ora queste figure professionali possono essere presenti tutte in una medesima struttura, non so nel mio centro piuttosto che in una qualsiasi altra struttura che produce applicazioni multimediali?
E questo che cosa comporta come risvolto negativo?
comporta ad esempio che mi dovrei rivolgere, se avessi sempre a disposizione, ad esempio, i grafici, sempre a quei determinati grafici, sia che produca un corso per bambini delle scuole elementari, sia che produca un chiosco informativo che serve per dare delle informazioni ai cittadini sul turismo, sui beni culturali o quant’altro. mi dovrei rivolgere sempre ai miei, perché li avrei in casa.
ma questo avrebbe sicuramente un influsso negativo sulla qualità del prodotto finale.
Molto meglio è infatti potere accedere alle singole professionalità di cui parlavo prima, quelle che nei singoli momenti, nelle singole attività, nei singoli progetti che sto sviluppando ritengo più opportune, più qualificanti, più adatte per quella determinata realizzazione.
Ma queste professionalità dove sono? sono sparse nel territorio. E se io vi devo accedere, se devo continuamente lavorare con queste professionalità, dato che , come dicevo prima, l’applicazione richiede un forte grado di interazione non mi resta allora che fare riunioni, incontrarsi, vedersi, con un aumento considerevole dei costi e dei tempi necessari a mettere assieme il grafico che si trova a Milano piuttosto che a Bari e così via.
Noi stiamo utilizzando quella che si chiama videoconferenza, cioè la possibilità di collegare i nostri strumenti di lavoro. Linee telefoniche, personal computer, telecamera e software appropriato consentono di scambiare, con la persona con cui si sta lavorando in quel momento, il proprio schermo.
Collegandomi con il grafico che sta a Novara è come se lo avessi affianco: lui riesce quindi a farmi vedere sul mio video quello che sta facendo in quel momento, io gli faccio vedere quello che sto facendo e quindi in quale punto, in quale momento il suo lavoro si integra con il mio.
In questo modo è come se effettivamente lavorassimo fianco a fianco, dato che tali mezzi mi permettono di interagire in qualsiasi momento lo ritenga più opportuno.
Nel produrre una determinata applicazione posso collegarmi con qualsiasi di quelle professionalità di cui abbiamo parlato prima in modo da verificare, confrontare e lavorare insieme.
Questo che cosa comporta? Comporta riduzione di costi, perché a non devo andare avanti e indietro; comporta riduzioni di tempi di realizzazione e quindi ancora di costi, e soprattutto mi consente di svincolarmi completamente dai problemi di distanza fisica, nel senso che per me il grafico o l’esperto di comunicazione che si trovi a Napoli piuttosto che a Casoria , o a Domodossola, è esattamente la stessa cosa che si trovi in Germania o in Inghilterra.
ho quindi la possibilità di potere collaborare e potere lavorare insieme con le professionalità che di momento in momento, di progetto in progetto, ritengo più opportuno per il mio scopo. E se associamo a queste possibilità insite nel lavoro in videoconferenza, che poi in realtà è più un misto tra videoconferenza e lavoro cooperativo, (altro elemento estremamente importante!) con altre strutture, con le possibilità offerte dalle reti tipo internet, (aldilà degli aspetti di moda) si può accedere a tutta una serie di informazioni che riguardano l’esistenza di possibili professionalità a cui far ricorso per poter collaborare insieme.
Ad esempio professionalità o gruppi di persone che si trovano in un paesino sperduto di una delle tanti valli italiane hanno la possibilità di mettere le informazioni, le sue pagine su internet e dunque di lavorare con noi, o con qualsiasi altra struttura, come se fosse a fianco a noi.
In definitiva l’esperienza che ho fatto e che sto facendo con il mio lavoro mi dice che il videolavoro è veramente molto utile per sviluppare prodotti, migliorare la produttività della mia azienda e delle altre stutture che possono così crescere senza il bisogno di dovere essere a fianco della mia azienda o trovarsi nei posti dove si produce. È evidente che tutto ciò ha un presupposto fondamentale nella vera realizzazione delle autostrade informatiche: le linee telefoniche devono esserci, devono esserci a sufficiente velocità e devono essere soprattutto a tariffe che siano accessibili.
Tutto il discorso infatti casca, peggio del famoso asino, se a un certo punto tutta questa disponibilità di tecnologie, di esigenze, di soluzioni ecc, non fosse supportato da strumenti che consentano di utilizzarlo.
Salvatore Casillo – Falso
La falsificazione
In termini generali la falsificazione può essere definita come l’assunzione, da parte di un soggetto, o il conferimento da questi, ad un oggetto, di una identità o di un modo di essere diversi da quelli posseduti, ovvero propri di altri soggetti o oggetti. La finalità di questa assunzione e di questo conferimento di identità consiste nel tentativo, per colui che li pone in essere, di conseguire un vantaggio rispetto ad altri, o, anche, in quello di creare uno svantaggio – in alcuni casi – a chi è usurpato della propria identità – in altri – a chi, non avendosi modo di rendersi conto dell’usurpazione, orienta il suo agire sulla base di una rappresentazione fondata sulla certezza dell’autenticità dell’identità che viene offerta alla sua percezione.
La falsificazione, dunque, è un tipo di azione che può essere posta in essere da un attore che interagisce con altri in una situazione di tipo competitivo/conflittuale, nella quale il primo annette alla sua iniziativa la possibilità di ottenere qualche beneficio per sè o per gli altri, a cui in una determinata occasione può essere collegato da una sintonia di interesse – anche attraverso la sola produzione di un impedimento alla realizzazione degli obiettivi che intendono proseguire i soggetti nei cui confronti l’azione in questione viene ad essere concepita e sviluppata. In quest’ottica la falsificazione si pone sia come strumento di aggressione dell’altro che di difesa da questi o di sabotaggio delle sue capacità offensive. Due sono le principali modalità attraverso cui può essere attuata la falsificazione da parte di un soggetto su se stesso o in relazione ad uno specifico prodotto che egli appronta: l’occultamento e/o la mimetizzazione dell’identità posseduta ; l’assunzione di una identità diversa da quella che gli è propria e/o l’approvazione di un’ identità di altri.
Queste due modalità si concretizzano, per lo più, nel ricorso ad una delle seguenti azioni nonché a combinazioni tra esse :
a) la soppressione di caratteristiche dell’identità o della condizione originaria;
b) la modifica di caratteristiche dell’identità o della condizione originaria;
c) l’aggiunta di caratteristiche non possedute dall’identità o alla condizione originaria;
d) la totale creazione di una identità inesistente ;
e) la riproduzione e l’utilizzazione degli elementi che contraddistinguono l’identità propria di altri.
Il fenomeno della falsificazione dei prodotti manifatturieri
Le dimensioni che il fenomeno della falsificazione ha raggiunto nel corso degli ultimi dieci anni sono davvero strabilianti. Nessun settore delle attività produttive, artistiche, culturali, e finanche scientifiche, si può dire al riparo dalle insidie di falsari sempre più aggressivi e dotati di strumentazione e di conoscenze tecniche di elevatissimo livello. La storia ci segnala che da “sempre” falsi e falsari sono stati presenti ed attivi nelle vicende sociali economiche del consorzio umano, tuttavia è negli anni a noi più vicini che le attività di contraffazione, in relazione specialmente ad un ampia gamma di prodotti manifatturieri, hanno assunto, diffusioni aspetti e caratteristiche che le rendono non solo una preoccupante minaccia di tipo economico, ma anche, in un numero crescente di situazioni, un pericolo per l’incolumità e la salute di vaste schiere di persone.
Il pericolo dei falsi
In quasi tutte le società industriali, per la maggior parte dei cittadini e dei consumatori, allorquando viene loro posto il problema della contraffazione nel settore manifatturiero, il riferimento visivo che, in modo immediato e spontaneo viene ad essere evocato attiene per lo più a prodotti relativi all’abbigliamento alla pelletteria, o, ancora, all’orologeria ed ai preziosi in genere. Sulla base di rappresentazioni di questo tipo, l’atteggiamento nei confronti del fenomeno della falsificazione finisce con il variare all’interno di due opposte sponde, da un lato, quella caratterizzata dal timore di poter incorrere in spiacevoli “bidoni” dall’altro, quella segnata da una certa ammirazione per l’ingegnosità e per la perizia di alcuni falsari particolarmente”bravi”. Le reazioni sarebbero, però, ben diverse se si tenesse in debito conto che, per i beni in questione:
a)produttori e venditori non sono certo tra coloro che pagano le tasse per i profitti che ricavano dalle loro attività;
b)nella stragrande maggioranza dei casi, quanti materialmente lavorano produzioni delle merci contraffatte non sono minimamente tutelati nè per quel che attiene al salario, a diritti previdenziali o alle condizioni igieniche, di sicurezza e di salute;
c)in altre aziende ed altri lavoratori da essi dipendenti possono ricevere danni anche molto ingenti da questa forma dipirateria commerciale.
Queste reazioni porterebbero, poi, un segno ancora più intenso e forte se ai cittadini ed ai consumatori potesse essere rammentato che, oltre alle produzioni appena citate, l’industria della falsificazioni immette sul mercato prodotti chimici, medicinali, fitofarmaci fertilizzanti, impianti elettrici, pezzi di ricambio, e freni per auto ed aerei, privi di qualsiasi validità che costituiscono spesso, attentati pericolosissimi alla vita delle persone e che, essendo pressoché tutte le produzioni realizzate da aziende che operano clandestinamente è estremamente probabile che da esse vengano dispersi nell’ambiente senza alcuna precauzione residui nocivi e velenosi.
Dai falsi di lusso a quelli relativi ai consumi quotidiani
Oggetti preziosi, orologi di alta precisione e qualità dimateriali, opere d’arte, reperti archeologici, pezzi di antiquariato, capi di abbigliamento, atti a conferire prestigio ai loro possessori/ostentatori, in ragione di profonde modifiche dei canoni attraverso i quali definire il “Bello” e di manifestare la riuscita sociale dei singoli, hanno occupato posizioni di crescente importanza nelle scelte di consumo di una molteplicità di attori sociali , ma anche nelle aspirazioni di altri totalmente privi di risorse adeguate per pervenire al loro acquisto. Nella prima fase dello sviluppo delle società industriali, contraddistinte dai cosiddetti consumi di massa, la produzione e la commercializzazione di beni contraffatti ha riguardato, ancora principalmente, merci di lusso, per la cui realizzazione erano indispensabili, ai fini di una riuscita dell’inganno, la padronanza di competenza tecniche e buona capacità professionale, le quali se, da un lato, non erano facilmente reperibili,ed andavano adeguatamente remunerate, dall’altro, davano luoghi a prodotti che, per quanto fosse in espansione l’insieme dei loro possibili acquirenti, potevano contare su un assorbimento di dimensioni circoscritte. Benché in progressivo ampliamento, quindi, la gamma delle produzioni contraffatte, sempre incentrate sui generi di lusso, ha mantenuto a lungo le sue antiche e nette caratteristiche quali:
l’accuratezza delle realizzazioni;
la ridotta produzione, da parte delle singole unità di fabbricazione (anche se il numero dei soggetti che hanno orientato in direzione della falsificazione manifatturiera la loro attività di procacciamento di profitti è andato progressivamente crescendo);
i prezzi di vendita dei singoli prodotti relativamente elevati, tanto perché potesse essere possibile, con numero ridotto di esemplari falsi, ricavare introiti che ne rendessero conveniente la produzione e il commercio, quanto perché l’acquirente da ingannare potessero essere indotto a ritenere di trovarsi di fronte a merce autentica, pagata, si spera, ad un prezzo di mercato inferiore a quello praticato ufficialmente, ma non tanto basso da destare sospetti di imbroglio.
Fino all’incirca a due decenni fa il mercato dei falsi è stato costituito essenzialmente da prodotti dotati di queste peculiarità, fermo restando che nel periodo bellico ed in quello immediatamente successivo ad esso, essendo divenuto di lusso anche tanti generi alimentari, oppure di scarso valore di mercato prima della guerra (come ad esempio, le sigarette), questi vennero falsificati, via via manipolati, per realizzare artificiosi aumenti delle quantità offerte in vendita al mercato nero. E’ nel corso del periodo che in molti hanno indicato come la Grande Crisi degli anni settanta e ottanta e che ha sconvolto logiche ed assetti finanziari e produttivi di tutti i paesi aprendo la strada ad aspre forme di competizione globale, che nell’area delle produzioni e del commercio dei falsi manifatturieri sono avvenute profonde modificazioni. Il mercato della contraffazione si è infatti rapidamente trasformato in una sorta di comparto dell’economia illegale non più incentrato principalmente sulla realizzazione e sulla vendita di limitate quantità di beni di lusso, bensì sulla realizzazione e sulla vendita in massa di beni di largo consumo.
Vari elementi si sono combinati tra loro – e in tutti i paesi ed in tutte le aree del mondo,più o meno incertamente avviati a da tempo marcatamente assestati lungo percorsi di crescita incentrata sulle attività di produzione manifatturiera hanno dato luogo a quella che è possibile indicare come la nascita dell’industria del falso.
Tra essi certamente di rilievo sono state :
la condizione di difficoltà di molte piccole e piccolissime unità produttive, escluse dalla possibilità sia di mantenere la pur esigua parte di mercato raggiunta, sia di operare (o di farlo con qualche margine di profitto accettabile) per conto di iniziative di dimensioni più grandi e di maggiore peso sulla scena economica ;
la crescita di manodopera disponibile a fornire prestazioni lavorative in modo clandestino, occasionale e a basso prezzo ;
le semplificazioni di molti processi produttivi posti in atto dalla quasi totalità delle imprese di medie e di grandi dimensioni, al fine di ridurre costi, personale, e tempi di produzione ;
la crescente disponibilità sul mercato di strumenti e di attrezzature tecniche capaci di rendere agevole la duplicazione (di variabile riuscita) di prodotti già esistenti ed affermati e, soprattutto di tutto ciò che può consentire un’appropriazione dei tratti con i quali essi sono riconosciuti dai consumatori ;
le forti e perduranti tensioni e confusioni che, con alti e bassi di inflazione e l’alternarsi di stagnazioni e ripresa hanno introdotto stabilmente nel mondo del commercio e della distribuzione e che hanno comportato situazioni di fortissimo disorientamento dei consumatori.
I falsi ed i “doppi”
Nel corso degli anni ottanta attraverso il diverso combinarsi degli elementi appena segnalati, nei diversi contesti economico territoriali, ha cominciato, pertanto, a fare la loro apparizione sul mercato un’enorme quantità di falsi di tipo nuovo rispetto al passato, realizzati per essere inseriti nel grande calderone dei beni di appartenenti alla sfera dei consumi quotidiani di ogni cittadino, senza differenziazioni di reddito. Accanto ad essi, si è moltiplicata la presenza di altri prodotti, appartenenti ai più svariati comparti manifatturieri, dotati di aspetti e di confezioni fuorvianti ed ingannevoli, che spesso qualcuno chiama “falsi”, ma che in realtà non possono essere definiti tali, dal momento che essi si propongono ai consumatori mimetizzando la loro vera identità, e quella delle imprese che li realizzano, pur senza annullarne completamente ogni traccia. In altra sede sono stati approfonditamente esaminati i diversi componenti di questo mondo dei doppi che ha invaso i mercati in tutti i Paesi del mondo, tuttavia è qui opportuno rammentare quelli che marcano una maggiore presenza, segnalando sinteticamente i tratti più significativi che li caratterizzano. Il primo tipo di doppio è quello che scaturisce dall’imitazione confusoria dei prodotti (tipologie produttive, forme, insegne,marchi , confezioni, ecc..), una operazione che si sostanzia nella produzione e/o nell’introduzione nel mercato di beni, nel genere e nell’aspetto, molto simili, ma, volutamente, non perfettamente identici ad altri realizzati da altre imprese e già, in qualche modo, affermati. L’intento di coloro che pongono in essere iniziative di questo tipo è essenzialmente quello di introdurre i consumatori all’acquisto inducendo in essi il convincimento di trovarsi di fronte al prodotto noto ed apprezzato verso il quale essi avevano progettato di dirigere la propria scelta, avendolo conosciuto attraverso gli investimenti pubblicitari effettuati dal suo realizzatore. Solo procedendo ad una più minuziosa osservazione del luogo o del corredo di indicazioni concernenti l’identità del produttore, di cui la normativa prescrive la presenza e che nella maggioranza dei casi corredano questi doppi, è possibile scoprire la reale identità della merce replicata. Una variante di questa modalità di inganno dei consumatori è rappresentata dal secondo tipo di doppio, il richiamo confusorio di un marchio altrui, una situazione che si configura allorquando i diversi elementi che caratterizzano l’immagine d’insieme di un prodotto, realizzato da una impresa già operante e nota ai consumatori, vengono utilizzati da un’altra azienda che propone al pubblico una merce che, pur evidenziando, ad un esame più attento, una autonoma identità, si avvale, per il primo impatto con i potenziali acquirenti, di accattivanti effetti di “famigliarità” e di positive sensazioni di “già visto” che la privilegiano ai loro occhi rispetto ad altri anonimi concorrenti della stessa linea merceologica e, probabilmente, della stessa modesta qualità, traendo beneficio dal prestigio conquistato e dagli investimenti promozionali effettuati da un’altra iniziativa manifatturiera di ben più solido livello. Un terzo insieme di questa schiera di replicanti è costituito da beni realizzati da unità produttive che si impossessano di noti marchi distintivi che contraddistinguono prodotti di aziende particolarmente affermate in altri comparti manifatturieri e li utilizzano per caratterizzare le proprie merci, appartenenti a diverse aree merceologiche, più o meno limitrofe – ma non le stesse nelle quali operano le unità depredate, con lo scopo di lasciar supporre ai consumatori l’esistenza di legami giuridici o economici tra i loro prodotti e quelli realizzati dai titolarti dei marchi di successo o addirittura, che, quanto da essi immesso sul mercato, indichi che società che anno portato alla notorietà i loro marchi in uno specifico settore hanno fatto ingresso in nuovi ambiti produttivi, per ampliare e diversificare dalle loro tradizionali attività. L’imitazione del prodotto esteriore e del design di un prodotto – con o senza l’appropriazione del processo produttivo necessario per realizzarlo – con cui un impressa si è presentata con una specifica identità di fronte ai consumatori ottenendo i loro consensi, costituisce una quarta modalità di ampliamento della schiere dei doppi, nella misura in cui questa operazione (che in taluni casi deborda anche in azioni di spionaggio industriale) viola i diritti di ideazione di quest’ultima ed induce gli acquirenti a ritenere di trovarsi in presenza del bene fabbricato dall’azienda che ha sopportato i costi necessari per concepirlo e lo ha fatto affermare sul mercato. Se è vero, pertanto, che ognuno di questi tipi di duplicazione si estrinseca nell’assunzione, variamente accentuata, di sembianze altrui, inquinando il mercato, creando danni ad una serie di imprese ed ingannando i consumatori, essi costituiscono qualcosa di ben diverso rispetto all falsificazione totale, in ragione di un dato caratterizzante di quest’ultima di estrema rilevanza. La falsificazione totale – infatti consiste nella produzione clandestina e nella collocazione di beni il più possibile simili – specialmente per quello che riguarda la loro “veste di presentazione” ai consumatori – a quelli realizzati d un altra impresa (che li ha ideati, lanciati, fatti affermare) e spacciati per questi. Mentre i doppi di marchi e/o beni già esistenti le imprese che li fabbricano non si occultano, masi mimetizzano ed operano sfruttando l’equivoco, l’ambiguità il cavillo e le loro attività di produzione e di commercializzazione avvengono attraverso modalità non troppo diverse da quelle di altre iniziative che quotidianamente si confrontano lealmente sul mercato, gli operatori della falsificazione totale fanno di tutto per rendersi il più possibile invisibili ed insistenti Nei confronti delle prime, quindi, le aziende che ritengono di subire dei danni, in ragione delle sembianze che esse conferiscono ai loro prodotti, come pure i consumatori, indotti ad erronei acquisti, possono intraprendere azioni di tutela dei propri diritti (che il più delle volte hanno successo) essendo possibile la individuazione delle loro controparti, nei confronti dei secondi, invece, tanto le ditte danneggiate, quanto i consumatori che si accorgono di essere stati ingannati hanno enormi difficoltà a scoprire gli autori della fabbricazione della immissione sul mercato dei falsi in senso stretto. I luoghi nei quali avvengono le produzioni, le forme di trasferimento da questi ai punti vendita, la parte più consistente dei canali di smercio sono tenuti gelosamente nascosti, pronti ad essere smantellati o bloccati quanto c’è il sentore, da parte dei falsari, dei un aumento della probabilità di essere scoperti.
Consumatori ignari e falsari “ignoranti”
I preziosi orologi offerti dai “pataccari”, le 536 tonnellate e le 600 mila confezioni di prodotti alimentari di grandi marche, scaduti e riconfezionati con nuove date di scadenza, scoperti nel salernitano qualche settimana fa dai NAS, possiedono, dunque, lo stesso comune denominatore della clandestinità delle loro produzioni e delle loro modalità di collocazione sul mercato, ma essi, – come è stato detto – si differenziano tra di loro per il fatto che gli uni appartengono alla sfera dei consumi di lusso e gli altri a quelli della quotidianità. Questa difformità comporta, sullo scenario relativo ai comportamento dei consumatori, in specie a partire dagli ultimi dieci -. quindici anni, altre importanti differenze, che è opportuno rimarcare. La prima delle quali consiste nel fatto che ancora oggi è dato incontrare “sconosciuti” che propongono l’affare dell’ orologio di gran marca a basso prezzo, la stragrande maggioranza degli interpellati è consapevole che l’eventualità di trovarsi di fronte a uno spacciatore di falsi è certa. Chi davvero intende fare dono di un orologio d’oro o vuole gratificarsi acquistando una costosa borsa, segnata dal marchio di una grande casa, si reca in un orificeria di fiducia o nell’elegante negozio di vendita della maison. Per converso, la totalità di coloro che acquistano prodotto di largo consumo contraffatti li comperano e li utilizzano senza sospettare di potere avere a che fare con dei falsi. Il livello di attenzione di cui viene degnato un bene posto in vendita ad un prezzo relativamente basso, come può essere un detersivo, un lubrificante per l’automobile, un biglietto per la metropolitana, non consente di cogliere – se vi sono – difetti o anomalie del loro aspetto esteriore. E se qualche esercizio o qualche bancarella del mercato rionale praticano sconti incoraggianti non insospettiscono più di tanto anche eventuali leggere imperfezioni delle confezioni. Ancor meno, poi, ci insospettisce il farmacista che ci da un farmaco. Inoltre, a causa sia della relativa semplicità di realizzazione di molti dei prodotti di consumo quotidiano, che sono entrati e continuano ad entrare nel mirino dei falsari, sia della perfezione che, con l’uso di alcuni non eccessivamente costosi macchinari, può essere raggiunta nell’approntamento delle confezioni e delle “sembianze esteriori” dei beni contraffatti, ha iniziato a contrarsi sempre più l’area delle merci falsificate grazie a ll’intervento di specialisti dei diversi comparti merceologici entro i quali trovano collocazione i singoli tipi di falsi. Agli artigiani falsari, dotati di una certa professionalità e specializzazione, sono andati a sostituirsi nel caso di una molteplicità di beni, operatori specializzati nel falso manifatturiero in genere, che non hanno nessuna capacità personale di fabbricare prodotti dei quali ignorano peculiarità ed aspetti tecnici ma, in compenso, sanno bene come – a prezzi convenienti – acquistare i materiali che possono essere usati per la fabbricazione dei loro simulacri, dove reperire soggetti che possono eseguire le lavorazioni e gli assemblaggi (senza fare troppe domande e senza divulgare notizie) ed in che modo mescolare nel flusso commerciale i risultati di questi due insieme di operazioni. Paradossalmente, la loro ignoranza tecnica è anche il loro elemento di forza e di sostegno per una costante presenza nel mercato della contraffazione, dal momento che, a fronte di possibili cambiamenti degli orientamenti dei consumatori, all’adozione di qualche scoraggiante misura anticontraffazione da parte delle imprese da essi falsificate, all’improvviso scemare della domanda del bene su cui avevano concentrato la loro attività, all’apparire di nuovi prodotti molto richiesti, essi dispongono sempre delle “risorse” sufficienti per iniziare a contraffare altre merci, anche di settori e con tratti caratteristici molto distanti rispetto a quelli propri delle produzioni precedentemente oggetto del loro interesse. Questa assenza di specializzazione tecnica e di conoscenze merceologiche di base, così come è un elemento che gioca a favore di chi trae profitto dall’attività di produzione e di smercio dei falsi, costituisce anche la principale ragione dei rischi gravi che possono correre molti di coloro che acquistano prodotti contraffatti appartenenti all’ampia sfera dei beni consumati/utilizzati quotidianamente da milioni di persone. Il falsario negli anni ottanta e novanta è spesso una specie do apprendista stregone che concentra le sue attenzioni e le sue capacità sull’obiettivo della massima perfezione esteriore del prodotto attraverso il quale ha deciso di realizzare i suoi profitti, incurante ed ignorante delle implicazioni che possono avere i materiali, i componenti e i processi di fabbricazione che gli consentono di ottenere a buon mercato falsi dotati di livelli elevati di somiglianza al bene autentico. La tragedia del “vino al metanolo”, dovuta al tentativo di innalzare chimicamente il tasso di alcool di uve scarsamente zuccherine ; la “strage dell’olio di colza”, causata dai processi di “rinaturizzazione” per mezzo della soda caustica di partite tolte dal commercio come eccedenze e, quindi, denaturate per impedirne la riutilizzazione a fini alimentari ; gli inspiegabili incidenti domestici, provocati da materiali elettrici contraffatti, i rischi corsi da molti automobilisti inconsapevoli acquirenti di pezzi di ricambio falsi, sono solo alcuni esempi di una casistica che potrebbe essere molto lunga e che minaccia di ampliarsi ogni giorno di più.
Silenzi e grida
In presenza di questa trasformazione e di questa invasione del crescente esercito dei falsi manifatturieri, sul versante delle difese approntate dalle imprese produttrici dei beni contraffatti, la situazione attualmente in corso è paradossale ed allarmante. Premessa l’esistenza di un manipoli, ancorché modesto, di aziende molto impegnate nella lotta ai contraffattori dei propri posti, la situazione generale si presenta con i connotati del paradosso. Le imprese che all’apparenza appaiono più tenacemente protese nello sforzo di contrasto dei contraffattori e, certamente, quelle che più delle altre rendono manifesto il fatto che le proprie merci vengono falsificate, sono quelle che realizzano prodotti di lusso. Le aziende, invece, che fabbricano molti dei beni che tutti consumano abitualmente ogni giorno, o quasi, nella loro maggioranza, non danno segnali dai quali si possa desumere che siano minimamente coinvolte nel problema. Le prime sembrano ignorare che, da vari anni a questa parte, una percentuale elevatissima di coloro che comperano esemplari falsi dei loro prodotti non sono persone che si fanno abbindolare, ma soggetti che compiono i loro acquisti con consapevolezza che si tratta di contraffazioni. I falsari quindi non sottraggono acquirenti alle imprese produttrici dei beni di lusso più di quanto non lo facciano i livelli di reddito detenuti da quelle fasce di consumatori per i quali i beni di lusso si pongono al di fuori delle loro possibilità. Ciononostante, non sono poche le aziende di questo particolare settore che non perdono nessuna occasione per sottolineare la propria condizione di danneggiate e per proporre alla pubblica opinione di interpretare le aggressioni dei contraffattori come indicatori del loro successo e delle desiderabilità dei propri prodotti. I falsi si offrono come possibilità di invio di messaggi, neanche troppo impliciti, di invito all’acquisto. Messaggi che, quando provengono da aziende i cui prodotti sono realmente oggetto di contraffazione, costituiscono una scelta (forse opinabile)di comunicazione promozionale, fondata sul tentativo di trarre vantaggio da una apparente circostanza sfavorevole, quando, invece, di certi prodotti non sono in circolazione neppure quantità minime di contraffazione, l’ostentazione – con inserzione su intere pagine di grandi quotidiani nazionali – di una condizione di vittima dei falsari, accompagnata dalla sollecitazione a “provare il piacere di possedere” esemplari autentici di quei beni, mentre smentisce quanti sostengono che i falsi dei prodotti di lusso costituiscono una minaccia se non economica almeno d’immagine della realizzazione delle grandi case, la dice lunga sulla rappresentazione che, purtroppo, ancora negli anni novanta, alcune aziende ed alcuni pubblicitari hanno dei consumatori. Una rappresentazione che non è molto distante da quella che sembra ispirare i comportamenti di tante imprese produttrici di beni di largo consumo le quali, benché ricevano prove e segnalazioni di rinvenimenti di falsi di propri prodotti, evidenzianti più la propensione a far si che le notizie in questione e i propri nomi non trapelino il meno possibile attraverso i media, che quella di tentare di erigere qualche barriera più efficace – ma purtroppo per loro non priva di costi che scoraggi i contraffattori. Nelle stesse relazioni annue dei Nuclei Antiosofisticazione e Sanità dei Carabinieri è più facile leggere che “è stato scoperto un deposito un cui erano custoditi notevoli quantità di confezioni di olio dietetico contraffatto di una importante azienda nazionale” che incontrare la denominazionedel prodotto, oppure, è più facile trovare la notizia sull’ “Herald International Tribune”(22 Maggio 1992) che nel museo del falso di Salerno sono state esposte etichette con date contraffatte della “Nutella”, della Maionese Kraft”e del “Nesquik”, piuttosto che uno solo di questi nomi abbia modo di essere pubblicato sui molti dei quotidiani e periodici italiani, che pure hanno lodato il lavoro di ricerca svolto nella struttura di ricerca dell’Ateneo salernitano sulle tematiche della falsificazione del settore alimentare. Se poi i falsi riguardano i prodotti medicinali il silenzio è ancora più fitto e negare è quasi un obbligo per le imprese, a meno che non si parli di contesti geografici lontani da noi. Nel 1995 il Museo del Falso ha proposto un esposizione sulla contraffazione dei farmaci esponendo assieme a reperti verbali di sequestri effettuati dalle forze dell’ordine anche alcune lettere di risposta ad un questionario inviato alle aziende farmaceutiche italiane, circa le eventuali falsificazioni subite, nelle quali esse dichiaravano di non avere avuto questo tipo di problema, mentre nelle bacheche dell’Università le confezioni contraffatte dei loro prodotti e atti ufficiali delle forze dell’ordine le smentivano. In alcuni casi il grande impegno a impedire che siano di dominio pubblico i rinvenimenti dei falsi è connessa al timore che la notizia possa comportare l’abbandono traumatico e generalizzato dei consumatori dei prodotti caduti nel mirino dei contraffattori, con la conseguente scelta, da parte loro di orientare i propri acquisti su produzioni di aziende concorrenti, dimenticando il non irrilevante dato di fatto che gli operatori del falso, in genere, dirigono le loro attenzione su tutte le marche che hanno una certa presenza sul mercato, quindi, anche su quelli delle imprese le cui merci possono rappresentare delle teoriche alternative e di cui, prima o poi, verrà rinvenuto qualche esemplare contraffatto. In altri casi il black aut costituisce l’espediente per non dirottare risorse finanziarie, già programmate per altre finalità, in attività ed iniziativa di tutela dei prodotti di scoraggiamento dei falsari. In altre situazioni, ancora, la politica della negazione delle evidenze, della minimizzazione degli episodi, del silenzio derivano – specialmente per le aziende appartenenti a grandi gruppi o ad articolazioni di imprese multinazionali- -dalle logiche spietate del rapporto costi benefici.
Quali profitti potranno essere ricavati dalle spese impegnate per combattere le contraffazioni?
Se si tratta solo di uscite non c’è convenienza !