Nina, ti te ricordi
Lo ammetto, non so più da dove cominciare. Ma sì, comincio dall’inizio. Anzi no, dal titolo. Che prima era “Ti ricordi, Michel”, una bellissima canzone di Claudio Lolli, poi è diventato, grazie a Stefania Bertelli, “Nina, ti te ricordi”, parole e musica di Gualtiero Bertelli (perché grazie a Stefania Bertelli ve lo racconterò, forse, a parte).
Nina per me non è solo una canzone bellissima, è una parte della mia vita, quella in cui da studente di sociologia fuori sede, grazie alle 30 mila lire al mese che mi passava papà (era dura anche nel 74, ci dovevo pagare la mia quota di affitto, mangiare, ecc. per un mese; ho resistito solo 2 anni, ma per quei 2 anni non ho mai chiesto una lira in più) venivo aggregato ogni tanto come “chitarrista acustico” a un gruppo di musica folk che si esibiva alle Feste dell’Unità. E’ stata un’esperienza umanamente straordinaria, che mi ha permesso di conoscere persone e luoghi indimenticabili e di mangiare ogni tanto da “cristiano” invece che alla mensa universitaria, eppure non è di questo che intendo parlarvi.
Adesso voi direte: “ma ci fai capire che vai trovando?” Diciamo che vorrei parlare del ricordo, delle connessioni tra ciò che è stato e ciò che è, di come queste connessioni intervengono sui nostri modi di vivere ciò che per noi è inedito, è inusuale, si tratti di vestiti, di musica, di tecnologia, di idee.
Faccio un esempio, che io con gli esempi mi spiego meglio.
Quando Luca aveva 13-14 anni, sono stato io a insegnargli i primi accordi sulla chitarra e poi le prime canzoni. De andré, Guccini, Lolli, PFM, Bertelli, De Gregori, Genesis, Pink Floyd. Ci voleva molto poco e lui ci ha messo ancora di meno a diventare più bravo di me, ma ogni tanto ci mettevamo lì, suonavamo assieme e per me era molto bello. Ancora un altro poco, e con me non ha suonato più. Si, faceva una canzone, anche una e un poco, al primo mio errore, si scocciava. Lui aveva ormai i suoi miti e i miei non gli piacevano più. Ogni tanto discussioni, io con “ai miei tempi”, lui con “sei ‘na palla” e il discorso finiva lì. Pi ha un certo punto ho imparato gli accordi di Vasco Rossi, degli U2, dei Queen, e sono accadute due cose: ho scoperto che c’erano altre canzoni bellissime oltre a quelle dei miei tempi, e ho ricominciato ogni tanto a rifare qualche giro con lui, fino a quando non è passato al basso e poi è diventato troppo più bravo di me e non se ne è parlato più.
Potrei aggiungere che adesso lui suona più Led Zeppelin e Deep Purple che Queen e Metallica, ma questo ci porterebbe fuori strada e poi sono fatti suoi. Quello che voglio dire io è che forse ci sono modi più aperti e inclusivi di vivere i ricordi, modi che non si fermano al “com’era bello”, “com’eravamo più bravi e buoni”, ecc., sia perché forse non è vero, sia perché di certo ai più giovani un rapporto di questo tipo non interessa, sia perché senza i giovani non abbiamo futuro.
Qualche giorno fa avevo scritto una mail a Daniele Riva manifestando un certo imbarazzo per la confidenza e per l’affetto tra persone che in definitiva non si conoscono, e lui mi ha risposto “Conoscersi così da lontano, nella sua modernità, ha qualcosa di antico: come gli scambi epistolari dell’Ottocento. Il Romanticismo che risorge nell’era di Internet”. Ecco io credo che quello di Daniele sia l’approccio giusto, un approccio che non indugia sul rimpianto, sulla nostalgia, che pure talvolta ci sono, ma parte da lì per pre-disporsi, per accogliere, per cercare di vivere quanto più possibile tutto quanto di bello c’è da vivere qui ed ora. Ogni qual volta si può perché non sempre si può.
Cosa ne pensate?