Per genio e per caso

Abbiamo scoperto da pochi mesi di essere fronte a un nuovo cambiamento epocale. La regola “un gene, una proteina”, secondo la quale il flusso di informazione posseduto dal DNA si trasferisce in maniera unidirezionale alle molecole che lo trascrivono e lo traducono nel linguaggio degli amminoacidi, è messa definitivamente in discussione. Il “trascrittoma” (RNA) ha infatti non solo la funzione di trasportare e tradurre informazioni ma anche quella di coordinare il complesso lavoro teso a rendere integrate ed efficienti le migliaia e migliaia di componenti attive della cellula, di contribuire a regolare l’espressione del DNA.
La scoperta dei segreti dell’RNA si deve al lavoro di un consorzio internazionale formato da 190 scienziati, Fantom 3, che ha come leader un italiano, Piero Carninci. Ed è proprio a lui che abbiamo chiesto di tornare a ragionare di questa straordinaria scoperta e dei nuovi orizzonti che essa determina.
Gli abbiamo chiesto però di farlo da una prospettiva particolare, quella data dal modello di serendipity che, come ha scritto Robert Merton, ”si riferisce all’esperienza, abbastanza comune, che consiste nell’osservare un dato imprevisto, anomalo, strategico, che fornisce occasione allo sviluppo di una nuova teoria o all’ampliamento di una teoria già esistente” (Bologna, 2002).
E’ una prospettiva a nostro avviso interessante per almeno tre ragioni:
perché aggiunge un ulteriore tassello a una storia, quella delle scoperte fatte per genio e per caso, che ha avuto protagonisti numerosi e illustri (ivi compresi Francis H. C. Crick e James D. Watson che, come loro stessi hanno raccontato, senza l’aiuto di Jerry Donohue, un giovane cristallografo statunitense, forse non avrebbero mai scoperto il modello a doppia elica della struttura molecolare del DNA);
perché permette di andare al di là dei termini puramente logici con i quali vengono presentate le teorie scientifiche, di ricostruire il corso dell’indagine così come è stata svolta dal ricercatore, di mettere in evidenza ciò che effettivamente è stato fatto per arrivare a quella scoperta (come ebbe a dire Richard P. Feynman nel corso della sua prolusione in occasione del conferimento del Premio Nobel (Science, n° 153, 12 agosto 1966, pp. 699 – 708) “abbiamo l’abitudine, quando scriviamo gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche, di rendere il lavoro quanto pi� rifinito possibile, di nascondere tutte le tracce, di non prenderla per i vicoli ciechi o di descrivere come la prima idea che si era avuta era sbagliata, e così via, [… cosicché finiamo col perdere di vista …] quello che si � fatto veramente per arrivare a quel lavoro);
perché aiuta a comprendere le ragioni per le quali in ambienti ricchi di interazioni socio – cognitive è più probabile che il caso favorisca determinate scoperte.
Con la “complicità” di Carninci eccoci dunque a ripercorrere le tappe della nuova frontiera dell’RNA alla luce della definizione che il grande sociologo statunitense ha dato di “imprevisto”, “anomalo” e “strategico”.

Imprevisto: Merton afferma che “una ricerca diretta alla verifica di una ipotesi dà luogo ad un sottoprodotto fortuito, ad una osservazione inattesa che ha incidenza rispetto a teorie che, all’inizio della ricerca, non erano in questione”. E’ accaduto qualcosa di simile nel corso del vostro lavoro?

Sì. Eravamo partiti dall’idea che il genoma producesse mRNA (RNA messaggero, N.d.R.) che a loro volta producevano proteine, che corrisponde al dogma centrale della biologia molecolare. Al tempo, alla fine degli anni ’90, si pensava anche che ci fossero 70-100 mila geni differenti che codificano per proteine, e queste stime derivavano da misurazioni piuttosto complesse sul numero degli RNA in una cellula.
I nostri dati sui cDNA (DNA complementare, cioé DNA copiato da un mRNA), ha dato risultati coerenti con le teorie precedenti, che parlavano per l’appunto di 70-100 mila geni, ma erano in contrasto col numero di geni trovati, 22 mila circa, nel genoma umano o murino (il banale topo domestico, N.d.R.). Allo stesso tempo, abbiamo iniziato l’analisi dei nostri cDNA e abbiamo scoperto che una buona metà non codificava per alcuna proteina, ma ci è voluto parecchio tempo per capire che questi cDNA non erano frammenti di genoma, clonati per errore, ma in realtà erano un sacco di RNA diversi che non codificano per proteine.

Anomalo: Merton scrive che “l’osservazione è anomala, sorprendente, perché sembra incongruente rispetto alla teoria prevalente, o rispetto a fatti già stabiliti. In ambedue i casi, l’apparente incongruenza provoca curiosità; essa stimola il ricercatore a trovare un senso al nuovo dato, a inquadrarlo in un più ampio orizzonte di conoscenze”.
Qual è stata, nel vostro caso, l’anomalia, la sorpresa?

Come in parte ho già detto, l’aver trovato dall’analisi dei nostri cDNA, questi RNA che non avevano nulla a che fare col “dogma centrale”, ovvero non codificavano per alcuna proteina. All’inizio, non sapevamo che fare con questi oggetti, che sembravano cose indesiderate ed inutili. Ho avuto abbastanza difficoltà anche con certi colleghi, che ritenevano questi RNA un artefatto dei miei esperimenti prima di considerare qualcosa al di fuori del dogma. Uno di loro, ad un meeting nell’agosto del 2000, ha dichiarato che questi cDNA erano semplicemente “junk” (spazzatura, N.d.R.).
E’ significativo quanto tempo passa prima che delle osservazioni, che ora sembrano logiche, possano cambiare il vecchio dogma e come anche noi scienziati siamo così poco flessibili: un grande insegnamento.

Ti sei trovato nella situazione descritta da Herbert Butterfield, secondo il quale “di tutte le forme di attività mentale la più difficile da indurre […] è l’arte di adoperare la stessa manciata di dati di prima, ma situarli in un nuovo sistema di relazioni reciproche fornendo loro una diversa struttura portante; il che significa praticamente ripensarci su” (The Origins of Moderne Sciences, 1300 -1800, London, G. Bell & Sons, 1949, p. 1).

Esattamente. Per fortuna a un certo punto abbiamo iniziato a pensare a cosa potessero fare questi RNA, e se la loro presenza potesse aiutare ad interpretate alcuni meccanismi di regolazione del gene, o di regolazione dello splicing differenziale (lo splicing è il meccanismo che taglia e ricuce gli mRNA eucariotici in pezzetti più corti, che sono poi utilizzati dalla cellula in questa forma per la produzione di proteine). Abbiamo anche visto che questi RNA sono espressi in vari tessuti, hanno diverse regolazioni, ed alla fine abbiamo deciso di vedere la loro funzione, ma questa è la parte pubblicata su Science del 2 settembre.

Strategico: Merton ricorda che “affermando che il fatto imprevisto deve essere strategico, cioè deve avere implicazioni che incidono sulla teoria generalizzata, ci riferiamo, naturalmente, più che al dato stesso, a ciò che l’osservatore aggiunge al dato. Com’è ovvio, il dato richiede un osservatore che sia sensibilizzato teoricamente, capace di scoprire l’universale nel particolare”.
Quali possono essere gli sviluppi della vostra scoperta?

La scoperta di base è che c’è un mondo nuovo costituito da RNA che funzionano regolando varie attività nella cellula.
Per fortuna, lavorando col genoma e col trascrittoma, tutti i dati vengono depositati nei database pubblici, per cui gli sviluppi possono essere portati avanti da qualsiasi laboratorio che sia in possesso di un collegamento internet, ovvero, universalmente.
L’osservazione principale è che la trascrizione e produzione o la presenza di certi RNA ha la funzione di regolare altre specie di RNA. Una volta capiti i dettagli e la specificità, questi RNA potranno essere usati come strumenti per controllare l’espressione di altri RNA. Se, ad esempio, uno degli RNA da controllare fosse responsabile di una malattia (ad esempio il cancro), la possibilità di regolarne l’espressione produce conseguenze positive. Sappiamo ad esempio che i farmaci che modulano l’attività di geni o dei loro prodotti (proteine) presentano effetti collaterali e spesso tossicità; al contrario, tutti noi possediamo RNA, per cui scoprire gli RNA effettori può dare grossissimi vantaggi.

Lasciamoci, come vedremo solo in parte, alle spalle Merton e veniamo al tema “cervelli in fuga”, sempre di grande attualità quando si incontrano personaggi come te, che solo fuori dall’Italia riescono a dimostrare il proprio valore.
Si è scritto molto, nelle settimane successive alla pubblicazione su Science della vostra scoperta, della tua “fuga” in Giappone. Ma è davvero così? O anche tu come Troisi (che in “Ricomincio da tre” deve arrendersi al luogo comune che vuole che un napoletano non possa viaggiare ma soltanto emigrare) hai lasciato l’Italia per scelta e ti ritrovi iscritto tuo malgrado nel club dei “cervelli in fuga”?

Detto che personalmente raccomanderei a chiunque di andare all’estero per alcuni anni, qualunque sia il campo o la disciplina di suo interesse (imparare ad adattarsi a culture e lingue diverse dà grossissimi vantaggi oltre ad essere un fattore importante di arricchimento personale e culturale), aggiungo che purtroppo in Italia non ho avuto la possibilità di stabilirmi come ricercatore, pur avendoci provato per diversi anni, sia in campo universitario che nell’industria biotecnologica.
Dall’Italia ho avuto tantissimo, in termini di educazione e primi anni di esperienza lavorativa. Tuttavia, nel momento in cui avrei potuto restituire al mio paese qualcosa, non c’e stata nessuna struttura, almeno a Trieste, pronta ad una collaborazione produttiva.
Sinceramente, prima della partenza andare in Giappone mi sembrava una cosa estremamente complicata e difficile. Tuttavia, una volta atterrati all’aeroporto di Tokyo, le cose sono andate immediatamente per il meglio.
Quello che mi ha colpito da subito è la fine della frustrazione che avevo in Italia, dove le domande tipo che rivolgevo a me stesso erano: prenderò il prossimo stipendio? devo cambiare lavoro? se non compero la carne ma mangio solo spaghetti, riesco ad avere i soldi per fare benzina e andare in laboratorio?
A Tokio sono prontamente passato a domandarmi come capire la funzione del genoma o come sviluppare tecnologie che ti permettono l’analisi in parallelo di molti geni.

Una bella differenza.

Proprio così. Il fatto è che in Giappone, come negli Stati Uniti, le strutture di ricerca sono organizzate (ecco che ritorna Merton, N.d.R.), la ricerca è un investimento in conoscenza quella del ricercatore è una professione vera, nel senso che il ricercatore non è considerato un parassita ma uno che deve produrre conoscenza (e brevetti) per lo sviluppo del paese.
E’ facile capire come, con queste premesse, la vita in Giappone sia paradossalmente più facile che in Italia.

Tornerai?

In tanti me lo hanno chiesto. Non lo so, del futuro non c’è certezza. Posso dire che sogno una posizione in cui posso vivere tra due mondi diversi e farli interagire, che continuo a collaborare con molto piacere con istituti e ricercatori italiani, ma all’energia che mi dà il fatto di vivere in un paese come il Giappone e in una città come Tokyo non riesco a rinunciare. Probabilmente sono troppo pigro per pensare di lasciare tutto qui, rientrare in Italia e combattere, in qualche università, per avere opportunità molto al di sotto di quelle che ho qui.

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