Primarie, again
Adesso che l’onda mediatica sulle primarie si è finalmente arrestata, è possibile tornare a parlarne con un pò di calma?
Io spero di sì. E perciò di seguito potrete leggere alcune riflessioni un pò più meditate sull’argomento.
La discussione pubblica, in tema ad esempio di guerra e pace, di fecondazione artificiale, di diritti delle persone, di qualità delle istituzioni che ci governano, di scuola, di immigrazione, di violenza urbana, di ricerca scientifica e tutela dell’embrione, è oggi il principale strumento a nostra disposizione per non finire preda dell’autismo sociale, per sottrarci all’ipnotico e condizionante potere di vecchi e nuovi media, evitare di essere o sentirci cittadini in affitto, come quando siamo coinvolti o chiamati a decidere su questioni assai rilevanti senza avere il modo, il tempo, le conoscenze, per poter definire un autonomo, meditato, argomentato, punto di vista.
Nulla sembra poter sfuggire alla regola, come dimostra il percorso che ha portato alla scelta di svolgere elezioni primarie per definire la leadership dello schieramento di centrosinistra.
Sottolineato che non si tratta in questa sede di mettere in discussione il valore di tale percorso o l’importanza del processo democratico messo in atto (ad altri, con l’ausilio di altri strumenti, toccherà, è toccato, fare la conta, valorizzare, evidenziare, sottostimare, a seconda del punto di vista, dell’interesse, del risultato, l’evento) resta il fatto che coloro che si erano a suo tempo preparati per partecipare alla scelta del candidato leader hanno a un certo punto letto sui giornali o sentito in tv che forse saltava tutto perché i candidati erano due invece che uno (fortunatamente alla fine sono diventati sette); che passata qualche settimana ancora dai giornali e dalle TV si è appreso che i risultati delle regionali (cosa c’entrano?) rendevano superflua la consultazione, dato che la leadership di Prodi (che in realtà non era candidato in nessuna regione) era stata definitivamente legittimata dalla consultazione amministrativa; che passata ancora qualche settimana è rispuntata la possibilità di tornare a votare per le primarie perché la Margherita ha deciso di presentare proprie liste per la quota proporzionale alle elezioni politiche del 2006 (ancora una volta, cosa c’entra?) e proprio le primarie rappresentano la mediazione per evitare la crisi dell’Unione e la scissione tra i seguaci di Prodi e quelli di Rutelli, Marini, De Mita.
Detto che quelle che avete letto tra parentesi sono alcune delle domande che immaginiamo un bel po’ di persone “normali” si saranno poste, resta l’interrogativo finale: se, come del resto è già avvenuto, in quel caso con ottimi risultati, in Puglia, vincesse (avesse vinto) il candidato di Rifondazione Comunista, lo schieramento di centro sinistra avrebbe retto alla prova?
In questo caso la morale della storia è assolutamente evidente: c’è insomma ancora molta strada da fare prima che anche nel nostro Paese la cultura delle regole possa contare su radici solide, robuste.
In Italia c’è sempre un appuntamento decisivo dietro l’angolo, non è mai il momento giusto per discutere fino in fondo, per definire preventivamente regole precise e vincolanti per tutti.
Siamo un paese a scarso senso civico, dove si fa sempre in tempo ad essere accusati di fare il gioco del “nemico”. Dove predominano culture politiche che anche se in maniera e per ragioni diverse, (si doveva salvare il Paese dai comunisti, si doveva salvare il mondo dai capitalisti), hanno tollerato e persino coltivato l’idea che il fine giustifica i mezzi, che le questioni di metodo sono le questioni di chi non ha argomenti, che le regole non sono importanti. Dove i partiti politici fanno molta fatica a rinunciare all’idea di servirsi delle persone piuttosto che essere al loro servizio. Dove persino a livello dei “fabbricanti d’opinione” quasi nessuno ha tempo e voglia di spiegare che per questa via la politica non ha futuro, indipendentemente dal fatto che a vincere siano quelli che ciascuno è portato a considerare come “i buoni” o “i cattivi”.
Detto tutto questo, rimane il bisogno semplicemente più impellente di non rinunciare a giocare la partita. Bisogna farlo però con rigore. Senza dare l’impressione che le regole possano cambiare di volta in volta, a seconda degli interessi di chi le fa.
Costruire una cultura delle regole significa anche questo. Il rispetto delle regole è oggi più che mai la premessa di ogni possibile cambiamento.