Le nostre rughe ce le siamo guadagnate
La parte ricca del mondo sembra avere sempre più paura di scoprirsi vecchia, decrepita, prossima alla fine, per molti versi inutile. Nonostante l’ingegneria genetica, l’oggettivo allungamento della vita, la sconfitta di molte malattie, le nostre aspettative di futuro diminuiscono piuttosto che crescere. Ci aggrappiamo con tutte le nostre forze al presente, a ciò che dura un attimo e va costantemente rinnovato, al fascino del nuovo che porta con sé, per il fatto stesso di essere tale, significati positivi.
Nelle nostre culture, società, economie globalizzate, nelle quali il significato dei valori di libertà ed uguaglianza è cambiato in maniera profonda, l’aggettivo “nuovo” tende sempre più a perdere la sua neutralità, a rendersi indipendente dall’evento, dal fatto, dalla cosa a cui è associato, per diventare una promessa “a prescindere” di esiti, approdi, risultati migliori di quelli precedenti (vecchi). Facciamo sempre più fatica a pensarci in quanto appartenenti a una famiglia, un partito, un gruppo, una nazione, una comunità, uno Stato. Parlare di vecchi valori è come parlare di valori in disuso. Le idee se sono vecchie sono ritenute per ciò stesso logore e, soprattutto, perdenti.
Viviamo come ossessionati dalla necessità di cogliere sempre nuove opportunità, di raggiungere sempre nuovi traguardi. Ci scopriamo impegnati a sbarazzarci di antichi usi e conoscenze prima ancora di averne acquisiti degli altri. Ogni qualvolta pensiamo di lasciarci alle spalle una quotidianità che sentiamo mediocre, povera, stressante, insoddisfacente, ci diciamo pronti a cominciare una nuova vita.